Dubbi, incertezze, paure. Ma soprattutto network, confronti, legàmi. A seguito del lockdown da Covid 19, l’esigenza di molti artisti emergenti e operatori nel settore artistico era quella di ripartire. Elisa Mossa e il gruppo OTTN hanno creato BAR.co, un progetto di arte contemporanea presso il complesso storico di Urbania (PU). Abbiamo intervistato i 12 artisti protagonisti della residenza artistica, durata circa due settimane.
Lorenzo Kamerlengo (Pescara, 1988)
Parlami di te
Ho un passato nomade. A 19 anni me ne sono andato da Pescara e per 10 anni sono stato in giro per il mondo vivendo tra Cuba, New York, Bilbao, Berlino, Melbourne, Colombia e Repubblica Ceca. A 30 anni sono tornato nella mia città, Pescara, e ad oggi sento il bisogno di restarci. Anche il mio lavoro ha risentito molto di questo nomadismo.
Parlami del tuo lavoro.
Opero spesso col concetto di ricostruzione dell’identità e di come questa si trasforma. Emblematiche sono le mie falling sculptures, delle sculture che cadono e che io assemblo attraverso delle morse da falegname. Sono sculture composte da oggetti di vario tipo che prevedono l’esistenza di un punto debole nella struttura, che sia un frutto, del ghiaccio. È un oggetto che col passare del tempo è destinato a cambiare forma, peso e dimensione fino a crollare su se stesso. Proprio come l’uomo, finchè le condizioni glielo permettono, va avanti per la sua strada ma quando incontra un ostacolo che rompe quell’equilibrio cade giù, si rialza, si trasforma.
Tornando a Pescara invece, ho visto che il mio lavoro è cambiato. Avevo bisogno di concentrarmi su un progetto in maniera più lenta, ponderata, necessitavo di armonia. I lavori prodotti a Pescara nascono in modo completamente diverso dagli altri. A me interessa molto l’opera rispetto alla psicologia e alla sociologia, per me l’opera è sempre il ritratto di una dinamica psicologica. I lavori di Pescara sono nati dalla volontà di una pratica quotidiana che mi facesse stare bene.
La quarantena ha portato tante persone ad interrogarsi sulla pratica dell’artista. Io l’ho affrontata lavorando nel mio studio con mattoni di cemento cellulare, mattoni sintetici che si usano in edilizia che scalfivo e scolpivo in basso rilievo. Questa pratica mi faceva stare bene, mi ricaricava, mi dava energia. Durante la quarantena ho anche scritto. Intervistavo artisti italiani per la rivista Segno, in particolare sondavo il rapporto tra isolamento e creazione. Alla fine il tutto si è rivelato un fallimento. Se nelle prime settimane il mondo dell’arte era rimasto in silenzio, poco dopo mi sono reso conto che stavo assistendo ad un affollarsi di contenuti, tutto si stava trasformando in una moltitudine di informazioni ed immagini, perciò ero diventato un ennesimo rumore anch’io.
Come siete giunti a Urbania?
Noi del “gruppo di Pescara” (Lorenzo e Simone Camerlengo, Chiara Druda, Marco de Leonibus, Gianluca Ragni) veniamo tutti da un background di provincia molto simile, poi ognuno ha fatto esperienze individuali in fatto di viaggi e formazione. Otto mesi prima che iniziasse il lock down ci siamo ritrovati tutti a Pescara. Da nomadi ci siamo ritrovati in pianta stabile nella nostra città natale. Ognuno aveva un bagaglio di esperienze diverso, ma ci univa una infanzia condivisa. Una volta qui, abbiamo iniziato a pensare a un progetto comune da attuare. Elisa e Giorgia ci hanno invitato a passare tre giorni presso il Barco di Urbania per assistere a dibattiti e talk che potevano arricchirci; inoltre anche noi eravamo chiamati ad arricchire i ragazzi che partecipavano alla residenza portando le nostre esperienze.
Ciò che amo di questo progetto è il concetto di non produzione che contraddistingue la residenza. Spesso, durante le residenze artistiche siamo chiamati a confrontarci con lo spazio, con il luogo e la comunità per poi pensare ad un progetto. Siamo abituati a trasformare le cose in dei prodotti, in delle opere, con una forma fisica. La sfida da cogliere sta nella possibilità di poter scegliere se fare o non fare, se produrre o meno.
Lo spazio mi sembra estremamente adatto a questo progetto non essendo un white box. Può ospitare opere d’arte ma mantiene una forte identità. Uscire da una dinamica di lavoro basata sulla produttività costante, per concentrarsi su dialoghi non solo fra artisti ma anche fra persone di diverse generazioni e che svolgono professioni differenti all’interno del panorama artistico, crea un calderone di contenuti, un discorso interdisciplinare. Credo che la residenza voglia concentrarsi su ciò che può alimentare il pensiero di un artista piuttosto che il mero momento di restituzione, l’opera in sé. Così facendo la residenza diviene un luogo in cui la logica produttiva viene meno e l’artista assume nuova importanza come individuo. E allora si ricercano i modi in cui l’artista si è alimentato, le esperienze che ha fatto, le contaminazioni che ha subìto. Allora si entra in una sorta di familiarità con l’artista e col suo lavoro.
Che cosa ti ha lasciato questa esperienza?
La mia personale visione dell’esperienza, anche a seguito dei dibattiti avvenuti nei giorni precedenti, è positiva perché molto formativa. Ci siamo trovati spesso ad arrivare quasi al litigio perché alcuni di noi portavano avanti un pensiero che entrava in collisione con quello di altri. Questa cosa nel mondo dell’arte è rarissima, perché rari sono i momenti di sincero scontro. Ci si nasconde spesso dietro convenienze di facciata. Questo invece, vuole essere un ambiente protetto e scevro dal concetto performativo. Penso che gli attriti siano necessari, perché fungono da motore per la creazione, sono il legname per fuochi che si alimentano per lungo tempo. Sono catalizzatori per la crescita di ogni individuo.