Jacopo Miliani (Firenze, 1979) è un artista italiano di respiro internazionale capace di oltrepassare l’appesantito limite di genere, sia in ambito artistico sia umano.
Nei suoi lavori, dalle performance ai prodotti audiovisivi, l’immagine diventa fluida, libera da etichette, sovrana e ricca di citazioni e richiami; la cultura visuale di Miliani è onnivora, in grado di coniugare satelliti apparentemente distanti come la tradizione del balletto classico e lo stile pop – patinato Vogue.
Teatro, danza, antropologia – corpo e linguaggio, tutto viene filtrato attraverso l’esperienza e la riflessione dell’artista. Visionario e sognatore di plurimi universi, fa innamorare letteralmente dell’immagine per la cura spasmodica e ricercata di ogni dettaglio; la sua è un’arte che cura, trasversale e totalizzante, dalla quale è impossibile non rimanere ammaliati.
Spesso iniziamo le nostre conversazioni con questa domanda: quali sono, secondo te, le differenze fra i tuoi esordi e oggi?
Il mio lavoro guarda alla performance come pratica e come metodologia, quindi la differenza, il non essere mai uguale, è alla base della mia ricerca. Non credo però che sia possibile descrivere questa differenza.
Nei tuoi lavori la componente audiovisiva è forte, iconica, urgente. La nostra rubrica ha un nome ben determinato: “Sound and Vision”. Puoi descriverci la relazione che intercorre fra suono e visione?
Nei miei lavori mi piacerebbe avere un’attenzione maggiore al suono. A volte ho avuto l’opportunità di collaborare con persone che da anni si dedicano a questo. Il mio lavoro è fatto di collaborazioni. Penso a Matyouz, che è la voce dei Vogue Balls, dove commenta e interpreta quello che accade sulla pista da ballo. Penso alla performance Anyway not everyone will read it dove la parte sonora viene composta live da Jean-Louis Huhta mentre due danzatrici eseguono dei movimenti per lo più nell’oscurità. Nel 2014 al MACRO di Roma ho “proiettato” solo l’audio di Profondo Rosso e avuto una conversazione live con Dario Argento proprio sull’importanza del suono nei suoi film. Adesso sono in contatto con una persona per creare una soundtrack del film La discoteca. Questi sono i miei lavori più “sonori”; invece, per alcune performance, il suono è quello del corpo che si muove, bisogna saperlo ascoltare.
Uno dei tuoi ultimi lavori è La discoteca, progetto filmico, in fase di realizzazioni in collaborazione con NOS Visual Arts Production, aggiudicatario dell’8° edizione dell’Italian Council, programma di promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. La discoteca è un racconto orale e visivo a metà tra fiction e archivio – un film d’artista che immagina la discoteca come “camera dell’amore”. Ci puoi raccontare la genesi di questo progetto? Cosa ti ha portato a interessarti di un luogo sacro e profano, simbolo di aggregazione e trasformazione culturale?
Il progetto non è ancora stato realizzato, ma è in fase di lavorazione. Sono molto contento di immergermi in questa nuova avventura con Elisa del Prete e Silvia Litardi di NOS e con tutti i collaboratori e le collaboratrici che mi accompagneranno e mi aiuteranno. La discoteca è un luogo di aggregazione dove entri e non sai bene quel che accadrà. Se, per esempio, vai in discoteca per imbroccare, forse è la volta che vai in bianco. Ho iniziato a scrivere il progetto a dicembre 2019 e ho pensato a una discoteca in cui è proibito ballare. L’idea del controllo e delle proibizioni nasce da un immaginario legato alla crisi delle discoteche gay in seguito all’avvento del virus dell’HIV e alla propaganda che ha condizionato i nostri comportamenti sociali. Quello che pensavo fosse un futuro distopico si è concretizzato velocemente. Il progetto si compone di diversi elementi: workshop, un catalogo, performance preparatorie e una ricerca costante che viene raccolta tramite un canale IG dedicato (@ladiscoteca_) in cui si possono seguire le diverse fasi.
In una bella intervista su Vogue dell’anno scorso – realizzata in occasione della tua presenza al Gucci Garden di Firenze con la trilogia filmica Deserto (2017), Hand Performance e Teorema Teorema Teorema (2019) – hai citato Pier Paolo Pasolini tra i tuoi riferimenti. Quali sono stati gli artisti o le opere d’arte che ti hanno segnato di più? Ce ne saranno sicuramente di numerose, puoi citarcene alcune, magari imprescindibili, che consciamente o inconsciamente hanno delineato il tuo background visivo e culturale?
Prima di tutto la mia famiglia e i miei amici, visto che con loro vivo e ho vissuto la maggior parte delle esperienze che mi hanno condizionato. Poi, ecco qua alcuni nomi: Kenneth Anger, Sturtevant, Michael Jackson, Andy Kaufman, Isa Genzken, Chiara Fumai, Yorgos Lanthimos, Sion Sono, Walter Siti, Monica Vitti, Alfredo Cohen, Pier Vittorio Tondelli, Mina Loy, John Giorno, Nao Bustamante, Raf Simons, i Magazzini Criminali, Yvonne Rainer… credo potrei andare avanti senza fermarmi per molto tempo. Nella costruzione del film La discoteca mi sono appoggiato molto ai miei riferimenti culturali, sono parte della scrittura; i film che vediamo e i libri che leggiamo influenzano il nostro fare.
Come è mutato lo scenario artistico durante il corso di questo 2020? Come muterà, se muterà, nel post crisi sanitaria?
Non ho risposte né domande per il futuro, lo sto aspettando come tutti e come sempre saprà sorprendermi.
Questo contenuto è stato realizzato da Federica Fiumelli per Forme Uniche.
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