Rahsann Thomas è un incarcerato. Dalla prigione di San Quintino (California, Stati Uniti) ha curato la mostra d’arte Meet Us Quickly: Painting For Justice From Prison, in collaborazione con il Museo della Diaspora Africana di San Francisco.
Dopo essere stato condannato per omicidio di secondo grado – con una pena dai 55 anni all’ergastolo – dall’interno della prigione inizia a collaborare con varie organizzazioni per combattere l’incarcerazione di massa e modificare l’atteggiamento nei confronti dei reclusi ed ex reclusi, da sempre discriminati.
Cresciuto a Brownsville, New York, attraversa un’adolescenza difficile. Coinvolto in numerose risse, comincia a rispondere alle violenze di cui è vittima. Se fosse stato percepito come un duro, gli altri avrebbero forse iniziato a rispettarlo. Dal momento in cui sparano al fratello a entrambe le gambe, Thomas inizia portare con sé anche una pistola, non solo per difesa personale, ma anche per dare più credibilità alla sua identità. «Portavo in giro quella pistola per difendere quell’identità a ogni costo, e sono successe delle cose tra me e due uomini armati, e alla fine ho ucciso uno di loro».
Vicino all’aver scontato quasi vent’anni della sua pena, Thomas ha raggiunto importanti obiettivi: è co-conduttore del podcast Ear Hustle, nominato per il Premio Pulitzer; è co-fondatore di Prison Renaissance, una piattaforma che mira a connettere gli incarcerati con le comunità esterne attraverso l’arte e la cultura; è contributor per vari giornali e scrittore al San Quentin News.
Recentemente, ha curato la sua prima esposizione, Meet Us Quickly: Painting For Justice From Prison, disponibile in versione digitale accedendo al sito del Museo della Diaspora Africana (MoAD) di San Francisco, associato allo Smithsonian. Per il podcast The Art Angle, Thomas si racconta in una toccante intervista che approfondisce il ruolo dell’arte e dell’empatia per cambiare il sistema penale americano. «Possiamo dare un valore aggiunto al mondo», dichiara.
È stato assurdo per me essere dovuto venire in prigione, cosa che mi ha provocato molto dolore, per riuscire a trovare me stesso. L’attore Chadwick Boseman disse qualcosa in merito a come gli sforzi e le difficoltà ti preparino a raggiungere il tuo obiettivo, e questo mi colpì molto. Ora accolgo le fatiche e cerco un modo per tirarne fuori qualcosa di buono.
Secondo Thomas, passare buona parte della propria vita in cella è una perdita di tempo. Questa è stata una delle ragioni per cui ha cercato e cerca in tutti i modi di migliorarsi. Ha iniziato a leggere, a praticare yoga, a cercare il suo posto nel mondo. «Invece di perdere tempo, come potrei prestare servizio alla società?» si è domandato, «Perché stare seduto nella mia cella, costando 80,000 dollari all’anno allo Stato, per me non significa pagare il mio debito».
Da queste riflessioni è nata l’esposizione. Meet Us Quickly riunisce 21 opere firmate da dodici artisti incarcerati. È stata la vicinanza, la prossimità, a far nascere l’idea. Thomas spiega: «Bryan Stevenson, il fondatore di Equal Justice Initiative, venne qui una volta e fece un discorso, e una delle cose che mi ha ispirato quel giorno è che disse che se vuoi risolvere un problema, devi essergli vicino. E ho capito che devo fare in modo che le persone ci vedano come persone, e che vedano il nostro valore».
Il progetto di Meet Us Quickly mira innanzitutto a sensibilizzare il pubblico sul tema dell’incarcerazione di massa, attraverso la collaborazione tra le organizzazioni Initiate Justice e Prison Renaissance. La prima parte del titolo della mostra, Meet Us Quickly, è un’idea Jo Kreiter, direttrice artistica di Prison Renaissance ed è tratta da una trilogia di performances che affronta il tema dell’incarcerazione di massa, chiamata Meet Us Quickly With Your Mercy.
Si tratta del primo lavoro come curatore per Thomas. La scelta degli artisti e delle opere è stata dettata puramente dalle sue preferenze e dal suo occhio. Da molto tempo è grande estimatore di alcuni artisti di San Quentino, come Antwan ’Banks’ Williams, con cui ha lavorato nel podcast Ear Hustle. È una delle persone più talentuose all’interno della prigione, un vero eclettico “Renaissance Man”: sperimenta con vestiti, film, disegni, musica e altri media.
Anche Lamavis Comundoiwilla è tra gli artisti esposti: autodidatta, impara a dipingere in prigione e inventa un nuovo stile chiamato “Fusion”, che consiste nell’utilizzo di stili multipli in un’opera sola.
Ancora, nel 2018 Bruce Fowler fa un dipinto di un sole in gabbia, e Thomas diventa un suo fan. Tra le opere visibili di quest’ultimo nella mostra, è incluso il ritratto Ruth, ispirato al giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, di cui Fowler si definisce “l’ultimo degli ammiratori”.
Nel testo che accompagna la mostra, Thomas scrive del potere dell’arte di stimolare l’empatia e dell’impatto che può avere anche su argomenti delicati come l’incarcerazione di massa. «Dicono che gli occhi sono lo specchio dell’anima, giusto? Qualsiasi cosa faccia l’artista, dipinge la sua anima sulla tela. Prende ciò che vede e lo dà al mondo. E quando lo guardi, puoi vedere l’umanità delle persone», spiega Thomas durante il podcast.
Dobbiamo essere responsabili, non importa quanto le nostre vite siano complicate e dure, non dobbiamo mai rinunciare al potere di fare la scelta giusta, questo è vero al 100%. Ma l’altra verità è che la maggior parte dei crimini non accade perché le persone sono cattive. La maggior parte dei crimini accade perché le persone sono traumatizzate, perché le persone sono povere e isolate e prive di opportunità.
“Se dimostri empatia alla radice della causa del crimine, fermi il crimine prima ancora che succeda, perché ne analizzi la radice. Questo è il tipo di sistema che vorrei vedere.” La prigione dà la possibilità di seguire corsi educazionali e approfondire i propri traumi; grazie a questi molti reclusi, una volta liberi, non fanno più ritorno in prigione. «Spero che le persone vedano il valore dell’arte “incarcerata”».
Le opere esposte sono state anche battute all’asta, ma solo cinque o sei sono state vendute. «Forse la base d’asta era troppo alta», suppone Thomas, «ma sentivo fosse importante che avessimo basi d’arta che rispettassero il valore del lavoro dell’artista».
L’arte non dovrebbe essere giudicata dallo stigma della prigione. Non dovrebbe essere sminuita o sottovalutata.
Le statistiche americane in merito agli incarcerati sono scioccanti: 2,3 milioni di persone sono in prigione, il numero più alto nel mondo. I neri costituiscono il 33% della popolazione in prigione, nonostante siano solamente il 12% degli USA. Secondo il curatore, il problema della polizia è strettamente legato a quello dell’incarcerazione. Bisognerebbe ripensare il sistema di polizia, che spesso in America punisce i crimini con la violenza.
“Penso anche che molto del tempo in prigione non sia necessario. Ho visto persone riabilitate in cinque, dieci, quindici anni. Puoi cambiare completamente la mentalità di una persona. Non c’è bisogno di tenere rinchiuse le persone qui per 30, 40, 50 anni… stiamo pagando per questo. Stiamo pagando 80,000 dollari all’anno in California per tutti quegli anni, quando invece i soldi dovrebbero essere indirizzati all’emergenza sanitaria del COVID-19.
Con questa esposizione, Thomas ha scelto di sfruttare l’arte come mezzo per aumentare la consapevolezza circa le vite dei prigionieri, eppure le istituzioni artistiche mondiali sono ambigue in merito. Per esempio, il MOMA PS 1, nel Queens, ha esposto una mostra chiamata Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration, con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico. Eppure, allo stesso tempo, uno degli amministratori del MOMA, Larry Fink, investe personalmente nelle prigioni private, traendo profitti dall’incarcerazione. Il mondo è pieno di contraddizioni.