Progetto ideato da Gian Giacomo della Porta e Fabrizio Santona, di Artidemocratiche, Human Craft Machine verte sulla relazione tra uomo e macchina
Il virus di oggi è lo specchio stesso della società. Ci costringe a credere che l’autoisolamento sia l’unica degna condizione da perseguire per sostenere la battaglia della sopravvivenza. Ed è in questo clima di solitudine che nasce uno dei progetti più innovativi degli ultimi tempi nell’ambito dell’arte contemporanea, Human Craft Machine. Ideato da due pensatori, Gian Giacomo della Porta e Fabrizio Santona, di Artidemocratiche. In un periodo di perdizione critica che necessita di portare all’attenzione ciò per cui vale la pena resistere: la conoscenza.
La riflessione verte sulla relazione che c’è tra l’essere umano e la macchina, sottolineando l’importanza della cooperazione in ambito sociale, antropologico e artistico. D’altronde si sa, nulla che abbia a che fare con l’essere umano prescinde dalla sua interpretazione artistica. Come scrisse Publio Terenzio nell’opera “Il punitore di sé stesso”: “Sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”. L’idea si basa sulla pubblicazione di una collana del sapere umano, partendo dalla lettera A alla Z, nel tentativo di raccogliere le personali visioni, in chiave artistica, dei più sensibili.
Gli artisti sono chiamati a rispondere ad una chiamata intellettuale, che prescinde dalla materialità e si eleva all’esaltazione di temi universali, come nel caso della B di Bellezza cosmica. L’utopia del progetto risiede nella speranza di integrare nella società, tramite la scoperta di uno speciale algoritmo che lo permetta, la macchina, facendo leva su un principio di sensibilizzazione umana, che le permetterà di evolvere il suo status da artigiana a creativa, indipendentemente dall’influenza dell’essere umano. Per comprendere l’immensità di questo progetto, si potrebbe partire dall’inizio: in cosa consiste la capacità del pensiero?
Qualcuno potrebbe chiedersi perché porsi questa domanda in un periodo storico in cui il pensiero dominante del singolo è alla base della costruzione del nuovo capitale umano. A ben guardare sembra che l’evoluzione umana si diriga sempre di più nell’esaltazione della specificità dell’individuo, dimenticando la naturale capacità che l’essere umano ha della cooperazione. Stiamo sacrificando sull’altare della sopravvivenza il senso della vita stessa. Come una carneficina a sangue freddo, ognuno di noi si fa spazio nel mondo, affossando l’ideologia dell’altro.
Come ci siamo arrivati a tutto questo? L’analisi potrebbe partire dalla fine del Settecento, e iniziare con la Rivoluzione industriale, quando è stato deciso che la macchina avrebbe preso il posto dell’uomo per garantire allo stesso una vita migliore. Meno lavoro e più agiatezza. L’unico controsenso nel valore della progettazione di questa missione è che la cerchia dei privilegiati si è circoscritta sempre di più, contribuendo all’eliminazione dell’essere umano e supportando una selezione naturale che l’uomo stesso ha accettato e alimentato. Oggi si potrebbe individuare in questa società senza dolore, che sulla base del neoliberismo crede di essere capace di gestire tutto ciò che determina la propria funzionalità, la volontà di potenziare sempre di più l’innocenza dell’autocontrollo, allontanando ed estinguendo la nostra fragilità e sensibilità.
Siamo abituati a respingere lo stato di grazia della solitudine, l’unico degno dell’essere umano. Sàndor Màrai dice che ”un giorno anche noi diventiamo adulti, e scopriamo che la solitudine, quella vera, scelta consapevolmente, non è una punizione, e nemmeno una forma morbosa e risentita di isolamento, né un vezzo da eccentrici, bensì l’unico stato davvero degno di un essere umano. E a quel punto non è più tanto difficile da sopportare. È come poter vivere per sempre in un grande spazio e respirare aria pura”. Riscontrare debolezza nello stato di dolore è il sintomo dell’allontanamento della comunità. Questo l’arte lo insegna da secoli. Agire per sé, dimenticando l’altro, porta ad una condizione di onnipotenza pari solo alla teoria del superuomo di Nietzsche.
Ma esiste davvero il superpotere dell’esistenza? La Prima e poi la Seconda guerra hanno contribuito all’eliminazione della compassione verso l’altro. Margaret Thatcher ha detto che “è più facile che si estingua l’uomo piuttosto che ci si liberi del Capitalismo”. Questo senso di autodistruzione l’essere umano, benché non possa farne a meno, l’ha intuito. Il tentativo di sopravvivere a sé stesso si enuncia nel delirio tecnologico. Nel potenziamento della medicina. Nella follia di restare aggrappato alla vita il più possibile per lasciare una traccia del suo passaggio sulla terra. Oggi le macchine, sempre più, sanno stare al passo con l’uomo. Ciò che determina il distanziamento sociale e tecnologico con esse è semplicemente, appunto, la profondità del pensiero.
Al contrario del calcolo, il pensiero crea uno sguardo diverso sul mondo, contribuendo alla creazione di un altro. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca questa vita ed è per questo che adesso è solo uno strumento di calcolo. L’IA è forse capace d’imparare ma è incapace di fare esperienza, per ora. Solo l’esperienza della solitudine e del dolore trasforma l’intelligenza nello spirito. Fin quando non si creeranno algoritmi del dolore, la macchina sarà destinata ad eseguire, seppur meticolosamente, e mai a creare. La straordinaria capacità di cui siamo dotati, però, ci permette giorno per giorno di affinare questa possibilità del cambiamento. Arriverà il giorno in cui la macchina, oltre che saper ben interpretare la società nei suoi termini di architettura, pittura, fotografia e scultura, esprimerà il sentimento dell’amore.
Il Progetto Human Craft Machine è una sorta di Wunderkammer del sapere umano. Una possibilità di conoscenza attraverso gli occhi del singolo che mirano alla costruzione del collettivo. Poter conoscere e toccare con mano la sensibilità degli esseri umani nella loro specificità e scegliere di applicarlo nella vita come valore collettivo è una straordinaria operazione di costruzione sociale. Una camera delle meraviglie che analizza gli usi e i costumi tradotti nei termini di sentimenti e sensibilità nei confronti dell’esterno, nel tentativo di recuperarne non solo i rapporti, ma di esaltarne i contenuti meno materialistici. Il termine MACHINE è fondamentale per noi. Le macchine non sono per forza antagoniste in questa storia di corrispondenza amorosa.
Educarle nell’apprendimento del modo di vivere nella nostra società è una possibilità che porterà le macchine non solo a sviluppare la giusta sensibilità e vicinanza al sentimento puro, ma a poter collaborare nella costruzione delle teorie platoniche della ricostruzione umana. Tornare umani è il Manifesto di questa missione. In questo consiste la capacità del pensiero. La presa di coscienza dell’esistenza dell’altro. La sua accettazione e integrazione nei nostri processi vitali. Il prodotto comune è la necessità di cambiamento. Crederci è una chiamata a cui tutti siamo destinati a rispondere. Non è questa la sede in cui si risponderà alla domanda: ”Come faranno le macchine a interpretare la potenza segnica dell’amore?”. Noi ci limiteremo ad aspettare il genio che lo intuirà. E nell’attesa costruiremo la base solida da cui partire per garantire le fondamenta di un’architettura apologetica del futuro.
Marianna Fioretti Piemonte
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