A prima vista, “It’s all true”, mostra di Giuseppe De Mattia presso Spazio Su a Lecce – luogo per l’arte contemporanea ideato e diretto da Grazia Amelia Bellitta e Gianni D’Urso – sembrerebbe un’operazione a metà tra situazionismo nostalgico e recupero ostinato di stilemi provenienti dal patinato immaginario degli anni ’80.
In realtà il lavoro di De Mattia, che compare qui per la prima volta, schernisce l’occhio del visitatore come fa lo specchio con le allodole, fondendo piani semantici e sovrapponendo al valore della realtà la menzogna come possibilità altra di linguaggio. Ritagliato un segmento storico significativo in senso identitario, quello degli anni ’80 che combacia con l’anno di nascita dello stesso, l’artista si appropria di alcuni status symbol inerenti, utili a inscenare la sua opera-menzogna.
Così, una riproduzione di un Rolex GMT 1675 degli anni ’70, una traccia audio in cui una voce – quella del fratello dello stesso artista – riporta liberamente una corrispondenza tra De Mattia e i fornitori del falso intorno alle caratteristiche dell’orologio, una fotografia dell’artista ritratto sulla fiancata di una Ferrari, accarezzano la realtà imitandola e permutandola in verosimiglianza. La perdita dell’originalità, la non unicità, la riproduzione seriale costruiscono i tre disvalori che sembrano invecchiare bene o non invecchiare affatto, piuttosto si mantengono come aspetti cronici dagli anni post boom economico fino al presente post ready-made. L’orologio da polso riprodotto, oggetto di culto dalla società dei boomer in poi, accompagna uno scenario riproduttivo della realtà, che galleggia nel verosimile, di cui abbiamo parlato con l’artista:
Sono cresciuto a Bari negli anni ’80, fuori dal centro, in un residence sull’asse della Strada Statale che unisce il Nord al Sud della Puglia. I miei genitori, figli di operai e contadini, frutto del boom economico e impiegatizio, ottennero l’ambitissimo posto fisso statale effettuando uno scatto sociale che li portò dal proletariato alla piccola borghesia.
Questo loro stato sociale ed economico permise a mio fratello maggiore e a me di crescere e di frequentare la media e alta borghesia barese. Posso dire di essere nato e cresciuto nel contesto di boomer a cui fai riferimento. Le zone residenziali in cui io e i miei amici vivevamo estate e inverno erano delle brutte imitazioni di isole felici in cui non c’erano limiti all’ostentazione di un certo successo economico e quindi sociale. Alcuni genitori dei miei amici avevano la stessa macchina che oggi ho usato per il mio lavoro, la Ferrari 208 Gt che allora mi sembrava la miglior macchina possibile (e forse il bambino che è in me lo pensa ancora). Ho ancora nelle orecchie la voce di mio padre che, osservandoli, dalla sua Fiat Ritmo 60 celestino recitava il mantra: “chissà se poi pagano le tasse!”.
Oggi mi rendo conto che non aveva tutti i torti, solo recentemente ho scoperto che la Ferrari 208 Gt era una sorta di Ferrari dei poveri, ma soprattutto degli evasori, di coloro i quali volevano apparire in Ferrari, ma allo stesso tempo non volevano pagare il temutissimo “super bollo” che si pagava per le cilindrate superiori ai 2000. Recentemente ho scoperto che lo stesso Enzo Ferrari – “The Drake” – non voleva nemmeno mettere il cavallino su quella Ferrari.
I Rolex (veri o finti) li vedevo su quelle terribili riviste da gabinetto che trovavo nella sala d’attesa del mio dentista o al polso dei miei amici al compimento dei loro diciotto anni, i figli dei notai o degli avvocati o alcuni che dopo qualche anno se li sarebbero venduti per pagarsi qualche cena fuori.
Ed è proprio l’orologio l’oggetto riprodotto che dilata e amplifica il desiderio di replicare altri beni di lusso, come le automobili appunto, per costruire un vero e proprio status sociale; è questo slittamento esistenziale del “dare l’idea” di un certo stile di vita, che si ritrova nella fotografia in cui l’artista è ritratto dal fotografo Gianni Mazzotta. Nell’immagine De Mattia sorride disinvolto, affianco ad una Ferrari rossa, chiesa in prestito per l’occasione ad un collezionista, indossando una serie di accessori ed elementi ispirati all’estetica della serie televisiva Magnum P.I., come una camicia hawaiana, Ray-Ban e il finto Rolex al polso. Il meta-mondo materico amplia il suo spettro d’azione dall’orologio da polso alla macchina di lusso; è l’apparente ricchezza di cui dar sfoggio il filtro, la necessità di affermare la propria identità all’interno di paradisi fiscali, e relative evasioni, ad andare in scena.
Tutti questi simulacri vuoti si rivelano importanti fattori utili soltanto a conseguire non una reale autodeterminazione sociale, bensì una conferma del binomio successo-carriera da artista. La foto è infatti estratta da una miniserie dal titolo programmatico: “Volevo far vedere che il mestiere d’artista andava benissimo invece è falso” ideata per il primo numero di “Franzina”, progetto editoriale-artistico a cura di Adelaide Cioni e Fabio Giorgio Alberti. Il mondo materiale sprofonda in quello immateriale rasentando quella che, comunemente, viene detta la “sindrome dell’impostore” con cui De Mattia ci racconta le pieghe, e le piaghe, delle aspettative sociali intorno allo statement dell’artista e di un sistema di cui si prende gioco attraverso la pratica della dissimulazione, come ci spiega:
«La serie “Volevo far vedere che il mestiere d’artista andava benissimo invece è falso” è nata in seguito a una richiesta di contribuire a un numero della Franzina, fanzine in fase di realizzazione dei miei amici Adelaide e Fabio. Mi chiesero di creare un’opera legati al concetto di lavoro nell’arte. Da diverso tempo, quasi tutta la mia produzione è tesa alla rappresentazione del rapporto tra denaro e arte. Per denaro non intendo solo monete e banconote ovviamente, ma anche tutti gli status che, veri o falsi, fanno apparire una persona ricca o no.
L’idea di questa serie fotografica è nata nel primo lockdown riprendendo l’idea che mi balenava in testa da anni di diventare Magnum P.I. (quello vero degli anni ’80, non il remake, finto, di questi anni). Ho trascorso un brutto inizio d’estate tra lo spaesamento della liberazione post pandemica e il clima di tensione che si era creato con alcuni conoscenti del giro dell’arte. Vedevo molti miei colleghi nervosi, agitati per non aver venduto nulla data l’assenza delle fiere e quindi depotenziati del loro potere economico. Quel potere che li faceva parlare di loro stessi in terza persona e che li faceva sembrare più sicuri del loro lavoro. C’era una certa aggressività nell’aria che poi si è smorzata nel consueto viaggio da Bologna (città in cui vivo da vent’anni) a Bari dove avevo ritrovato quella genuina ostentazione anni ’80 con il barista arricchito al cospetto dell’avvocato impoverito, quelle lezioni palesi di vita insomma.
Con questo lavoro mi volevo regalare una serie di autoritratti per schernire l’egocentrismo, atavico problema dell’artista e in particolar modo di quelli della mia generazione. Volevo giocare con la finta ostentazione di uno status non reale, fatto di prestiti e di falsi mostrati con disinvoltura “tanto la fotografia può mistificare bene”. Mostro, sapendo di mentire utilizzando una Ferrari “povera” e un Rolex falso che non ho potuto comprare nemmeno con i miei soldi, ma facendo una colletta tra cinque amici/collezionisti. »
La dissimulazione congiuntamente alla forza disgregante dell’intervento ci pacifica, in un certo senso, con la nostra quotidianità di navigatori più o meno esperti nel deep fake. Collaterale alla realtà rimane ciò che le assomiglia al punto da collocarsi autonomamente come dimensione a sé stante. Allo stesso modo la traccia audio che riporta la corrispondenza tra l’artista e i falsari che hanno riprodotto il Rolex diventa un detour nell’impero dell’illusione e della sovrapposizione. Come riportato in un passaggio dalla trascrizione libera della corrispondenza con i fornitori del falso Rolex: “Ripensandoci bene, scartiamo il “super-clone”. Non ne conosciamo l’affidabilità. Sono praticamente uguali.” Prosegue l’artista:
«Il rapporto continuativo con gli appassionati di orologi mi ha portato a tracciare due strade al loro interno: quelli tanto appassionati da inorridire all’idea di indossare qualcosa di finto, riprodotto, e quelli che invece, pur di raggiungere la pace dei sensi estetica, spendono migliaia di euro per un falso che gli permette di avere qualcosa di irraggiungibile. Infatti io, nel caso di questo Rolex GMT della fine degli anni ’60, ho scelto di riprodurre una rarità, un orgoglio che oscilla tra i 15K e i 40K!
Mi sono districato tra i mille “sembra vero”, “indistinguibile” e “come l’originale” dei miei interlocutori e ho chiesto di arrivare a realizzare un pezzo unico poiché per me si trattava di produrre una scultura e non un semplice orologio. Il mio orologio infatti è un mix che che nessun possessore né di originale né di falso farebbe. Ha il quadrante di un modello precedente, con le lancette del modello descritto nella didascalia e il fondello di un modello completamente diverso (il Submariner) che, essendo più ampio, mi permetteva di ospitare i nomi dei cinque amici/collezionisti che me lo avevano comprato per fare vedere che ero diventato un artista di successo.
Gli artisti sono capaci di qualsiasi bestialità tra di loro. Sono capaci di darsi dei “copioni” e degli “impostori” a vicenda! Con questo autoritratto volevo rappresentarmi come un copione e un impostore che spavaldo dice: “sono un artista e faccio il c***o che mi pare, uso ciò che voglio, prendo di qui e di là e mi metto anche in mostra!”.»
Ciò che sembra profilarsi è che il valore di un oggetto non è dato esclusivamente dalle sue caratteristiche estrinseche, dai suoi materiali o dalla sua originalità presunta. Il piano di senso si sposta ontologicamente, rivelando uno scenario e uno sviluppo inedito: l’oggetto falso riprodotto arriva a valere tanto quanto l’originale, ancora una volta non per struttura, ma a causa del fatto che è divenuto opera d’arte. La riproduzione è il paradigma con cui l’artista sviluppa questo codice binario tale che è la menzogna ad essere un’opera e, al contempo, l’opera è una menzogna.
Che ciò sia applicato ad una dimensione materica o esistenziale, emerge comunque come motivazione profonda che ne ammansisce l’idea di imbroglio o di truffa, restituendo la consapevolezza che siamo davanti ad una vertiginosità non solo di abbondanza visuale, ma di possibilità e di infinite versioni di qualsivoglia rappresentazione finita. Abbiamo creato universi paralleli di significanti e significati, che duplichiamo all’interno di un sistema di consumo coatto e compulsivo secondo, imitando ciò che già è stato imitato. Sprovvisti ormai di qualsiasi criterio di disambiguazione tra verosimile o reale, possiamo chiederci se è tutto vero ciò che vediamo o tocchiamo, ma prevalentemente assistiamo al fenomeno particolare del “contrappasso dell’arte”, come ha scritto V. Tanni in “Memestetica – il settembre eterno dell’arte” ossia un luogo in cui l’appropriazione, o la ricontestualizzazione delle immagini o degli oggetti stanno minando il sistema dell’arte, modificandolo profondamente. Aggiunge infine De Mattia:
«Questa opera è anche un ulteriore sfottò al mondo dell’arte come investimento e su quanto tutto ciò sia effimero. Tutto può essere investimento se visto con occhio lungimirante e paziente. Infatti sia che si parli di arte che di orologi o auto, si parla sempre in questi termini: collezioni, collezionisti, fiere, mercato e aste. Non si scappa! Il valore è virtuale oltremodo, tant’è che come ennesima provocazione contenuta in questo lavoro, ho voluto dare al falso Rolex, che però adesso è un vero De Mattia, un valore che segue pedissequamente quello del suo fratello originale.
Sfottendo tutto questo ho preso in giro me stesso e quindi, in fondo, quest’opera è soprattutto una presa di coscienza su uno stato di fatto. Queste fotografie, la piccola scultura da polso e l’audio sottolineano fino ad esasperare quanto la credibilità di un artista, oggi più che mai, si stabilisce con il rapporto che questo ha con i soldi.»
https://www.instagram.com/giuseppe_de_mattia/
https://www.spaziosu.it/