La Fondazione Marguerite et Aimé Maeght vanta nella sua collezione di arte moderna e arte contemporanea un suggestivo giardino segreto: il Labirinto ideato da Joan Mirò.
“Ceci n’est pas un musée”: la frase pronunciata da André Malraux durante il discorso di inaugurazione, era il 1964, sintetizza la vitalità della creazione, simbolo e cuore della Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence, Francia. L’edificio, disegnato da J. Lluis Sert nel centro di una pineta di proprietà dei mercanti d’arte parigini Aimèe e Marguerite Maeght avrebbe conosciuto un grande avvenire.
Casa-madre, casa-paesaggio, casa-arte, la storia della Fondazione racconta, a più di mezzo secolo dalla sua creazione, di una straordinaria simbiosi tra luogo, edificio e collezioni d’arte, di un’esaltante avventura resa possibile dalla connivenza dei fondatori con una “famiglia” di pittori e scultori fra i più importanti del secolo.
Ne è venuto fuori un grande “atelier della modernità” dove un inatteso dialogo di amici-artisti ha permesso una lettura complementare e differente dell’arte del XX secolo. Protagonista di questo inedito percorso, vale ricordarlo, è stato Aimé Maeght. Editore d’avanguardia, mercante d’arte, collezionista audace, produttore di film, Maeght divenne il compagno di strada di Braque, Matisse, Mirò, Léger, Chagall, Giacometti e dei principali artisti del dopoguerra. Con lungimiranza visionaria chiamò l’architetto catalano J.Lluis Sert amico di Mirò e allievo di Le Corbusier per far costruire la Fondazione destinata a divenire famosa (accoglie in media più di 200.000 visitatori all’anno, Info@fondation-maeght.com).
Alla sua messa a punto contribuirono gli amici-artisti, Braque disegnò una vasca mosaicata e le vetrate della Cappella, Calder sistemò fra gli alti pini i suoi poetici Mobiles, Bury disegnò la fontana, Giacometti riempì il cortile che adesso porta il suo nome con filiformi, gigantesche sculture, uomini e donne che camminano solitari ed assorti, Mirò concepì uno strano Labirinto di sculture.
Mirò e i Maeght
Il folgorante incontro di Joan Mirò (Barcellona 1893- Palma di Maiorca 1983) con i Maeght avvenne nell’estate del 1947. Di quella lunghissima amicizia rimane la straordinaria testimonianza di un numero rilevante di dipinti, grafica, sculture. Negli spazi della Fondazione incontriamo un artista padrone assoluto della sua arte pronto ad immettere nel ventesimo secolo la libertà delle emozioni e dell’invisibile, il prodigio della mitologia che è nella natura e nelle cose attraverso i segni e i colori di acqueforti, disegni, gouaches, pochi segni grafici, deformazioni fantastiche fortemente evocative di elementi naturali, resi con colori accesi e intonati alla gamma primaria dello spettro cromatico.
I temi che lo ispirano, la donna, l’uccello, la stella, il cielo, le costellazioni, il sole, la luna si rifanno ai grandi miti fondatori e trovano nel suo immaginario espressioni sempre diverse. Nato da padre orafo, l’artista ha praticato da artigiano rigoroso, da colorista affermato e disegnatore visionario pittura e scultura, ceramica ed incisione, sorprende la varietà di tecniche e di materiali usati per un’arte ludica che permette all’artista una grande libertà di invenzione.
Il mite, timido, melanconico Miró “un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni” come lo definì Jacques Prevert, offre un’interpretazione originale del Surrealismo affidata a una concezione fantastica della realtà a cui sa dare, malgrado fosse spesso preda dei mostri della depressione, una rappresentazione leggera, gioiosa, ricca di memorie, di richiami all’inconscio, alle visioni del mondo onirico, (emblematico in tal senso Il Carnevale di Arlecchino 1924-25).
Il Labirinto
La Fondazione Maeght fu il giardino segreto dove coltivò i suoi sogni e diede libero corso all’immaginazione. Testimonianza privilegiata del lungo processo creativo, del suo stesso itinerario mentale è il Labirinto, il giardino di sculture e ceramiche monumentali immaginato dall’artista negli anni ’60 in intimo legame con l’architettura e l’ambiente naturale.
Dal mito di Dedalo ai giorni nostri il labirinto è luogo enigmatico e misterioso per eccellenza. A partire dalle interpretazioni di Freud il viaggio nel labirinto conduce simbolicamente all’interno di sé stessi, nella memoria, nell’inconscio, nella parte più misteriosa e segreta di ognuno di noi, da sempre è stato utilizzato come mezzo iniziatico, creativo, spirituale per ritrovare il centro nel diluvio emozionale e creativo, simbolo di un mondo in cui gli schemi e la cui logica sono oscuri e perfino incomprensibili.
Mirò re-inventò nel suo personale labirinto un luogo magico popolato di sculture dai materiali più diversi – marmo, bronzo, ferro, ceramica – concepito con la complicità dei suoi amici ceramisti Joseph Llorens Artigas e il figlio Joan Gardy, un luogo dove si incontrano personaggi fantastici: la Fourche, l’Arc, Gargouille, Personage, le Lezard, l’Oeuf et la dèesse, la femme à la chevelure dèfaite, le cadran solaire risplendono fra la rigogliosa vegetazione ed il fresco scorrere delle acque.
Nel Labirinto Mirò ha creato un mondo con minimi mezzi, seguendo le stesse regole che teorizzava per la pittura: “Il quadro deve essere fecondo. Deve far nascere un mondo. Che vi si vedano fiori, personaggi, cavalli poco importa, purché riveli un mondo, qualcosa di vivente”. L’arte qui, destrutturando il suo percorso tradizionale, accede al mito, fonda un territorio magico come luogo della totalità, diviene lo strumento che consente di aprire il reale verso relazioni inedite, immaginifiche, imprevedibili.
Si incontra, in questo limpido, magico angolo di Provenza spesso battuto dal Mistral, il Miró scultore capace di interpretare la realtà con la sua vulcanica fantasia, il suo amore per la vita, il senso profondo della materia, laddove si disvela lo scarto che mette a nudo la verità irresistibile dell’arte come continua sperimentazione e consapevolezza, un impegno praticato continuamente, al fine di giungere al centro, di accedere all’ambiguità dell’inconscio. Ben sottolineava la poesia, l’essenza dell’arte di questo grande sognatore Eugene Ionesco quando nel ’72 scriveva, in uno speciale Omaggio uscito sulla Rivista “XXème siècle”: “Portiamo tutti dei mostri dentro di noi, rammarichi, amarezze, dolori. In Miró i mostri vengono esorcizzati, diventano gli esseri sereni e liberi di una festa in movimento in una fioritura ascensionale”.