Un album dei Dinosaur Jr. del 1994 era denominato Without a sound. Mai titolo fu meno azzeccato perché a questa band, con oltre trentacinque anni di carriera alle spalle, tutto si può imputare tranne il non aver un suono caratteristico e originale che li contraddistingue. Il suono è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo perché ti crea uno zoccolo duro di ascoltatori che ti criticano se ti allontani dallo stesso per evolverti e ti accusano di appiattimento se lo mantieni. Corri insomma il rischio di venir additato come un artista che realizza canzoni tutte uguali, cosa che avviene ad esempio da tempo immemorabile agli AC DC. Non è però il caso dei Dinosaur Jr. che hanno pubblicato da un paio di mesi il nuovo lavoro in studio Sweep it into space in cui sono riconoscibili pur non scopiazzando le canzoni dei dischi precedenti.
In ambito rock i due album più significativi che ci ha regalato questo primo semestre del 2021 sono, ad avviso di chi scrive, Carnage di Nick Cave e Warren Ellis (di cui abbiamo già parlato altrove) e questo Sweep it into space dei Dinosaur Jr. Se il primo, uscito a febbraio, era il disco della seconda ondata mondiale di Covid in cui però si iniziava a vedere la luce in fondo al tunnel con la campagna vaccinale, questo secondo è un album da ritorno alla quasi normalità: un disco da ascoltare in automobile coi finestrini aperti -ora che ci si può spostare liberamente- o da piazzare a tutto volume negli spazi aperti in qualche momento di ritrovata socialità.
Mi rendo conto che parlare di album possa risultare anacronistico per alcuni fruitori di musica in un momento in cui il digitale ha quasi seppellito il supporto fisico e la caduta libera del Compact Disc lo ha visto superare perfino dal vinile che, per quanto goda di una seconda giovinezza, ha ripreso alcuni anni addietro la crescita ripartendo da numeri davvero irrisori. Molti dei ragazzi nativi digitali e degli ascoltatori più distratti vivono ormai di playlist e i musicisti per guadagnare qualche quattrino dalle canzoni devono riuscire a piazzare il singolo in una playlist di livello mondiale. Questo Sweep it into space la canzone da playlist non ce l’ha. È composto da dodici pezzi di ottima fattura e discreta varietà che invogliano a rimettere l’album dall’inizio ogni qualvolta è terminato, ma non contiene quel brano da dieci che faccia urlare al miracolo. Ed è davvero un peccato perché questo impedirà a molti di conoscerne l’esistenza.
Quando la Band di J Mascis, Lou Barolw e Murph pubblicò il primo album nel 1985 il suono che ora li contraddistingue era avanguardia. A metà degli anni ’80 era folle puntare su chitarre rumorose al centro di un brano, non avvalersi di tastiere plasticate e non usare quel suono di batteria, spesso campionato, fatto di un ritmo leggermente velocizzato e tendenziale avversione alle variazioni. Il sound dei Dinosaur Jr. era insomma di nicchia in quegli anni mentre oggi è ampiamente sdoganato e il suo essere divenuto popolare lo toglie di diritto dalla scena indie rock. La musica della band americana è da sempre caratterizzata dallo scontro tra parti melodiche in cui è compresa anche la voce indolente di J e furia ossessiva della chitarra mettendo sul piatto una serie di elementi dai quali, di lì a qualche anno, il grunge avrebbe attinto a piene mani; in questa lotta è innegabile che, dopo i primi tre album, la componente melodica abbia guadagnato terreno, ma non è necessariamente un male.
A seguito dei tre dischi degli anni ’80, infatti, Mascis restò solo e continuò a pubblicare album sotto il marchio di Dinosaur Jr. che erano nel frattempo divenuti, di fatto, una one man band in studio e una band di turnisti che affiancavano l’unico componente dal vivo. J ha fatto un buon lavoro per alcuni anni e album firmando pezzi che ancora oggi sono imprescindibili nelle scalette dei concerti quali Out There e Feel the Pain, salvo poi abbandonare il nome e dedicarsi ad altri progetti. Nel 2005 tuttavia fu proposta alla band una reunion per un tour in occasione della ristampa dei tre album d’esordio che nel frattempo erano finiti fuori catalogo. Ritrovata l’antica alchimia dal vivo i tre decisero di riprendere anche la produzione in studio dopo aver messo in chiaro i rapporti di forza all’interno della band elevando Mascis a leader indiscusso e Barlow a gregario cui è consentito comporre e cantare un paio di canzoni in ogni album.
Per questo Sweep it into space le aspettative erano state aumentate anche dalla presenza dell’ex War on Drugs Kurt Vile in veste di produttore oltre che alla chitarra e alle background vocals in alcuni brani. Il suo apporto a un occhio -anzi un orecchio- esterno sembra impalpabile: l’album è prodotto in maniera brillante con un sound in cui si distinguono tutti gli strumenti senza suonare artificioso, ma lo stesso si può dire degli undici precedenti dischi dei Dinosaur Jr.; le background vocals sono appena percepibili e anche a livello chitarristico l’apporto è estremamente limitato e non potrebbe essere altrimenti al cospetto di un guitar hero come Mascis. Vile in definitiva non sbaglia nulla ma aggiunge poco o nulla. L’album è piuttosto omogeneo con un livello medio tarato verso l’alto e nessun pezzo che faccia venir voglia di premere il pulsante skip.
La canzone d’apertura I Ain’t ripete decine di volte le parole “I ain’t good alone” che, per quanto siano riferite a un rapporto di coppia, non possono che riportare alla mente l’isolamento vissuto per motivi sanitari lo scorso anno. Meritano sicuramente una menzione particolare I Met the Stones, brano tiratissimo in bilico tra l’elogio e lo sfottò alle band inglesi e Take It Back come pezzo più sperimentale in cui possiamo sentire qualche accenno di sonorità caraibica. Molto interessanti sono anche le canzoni scritte e cantate da Lou Barlow: si capisce che sono brani che porta al cospetto degli altri due come acustici e che poi vengono sottoposti all’opera di dinosaurizzazione per amalgamarli al resto del disco. Se già nel precedente album Give a glimpse of what yer not si era distinto coi brani Love Is… e Left/Right, stavolta supera se stesso con You Wonder e soprattutto The Garden che ci sentiamo di consigliare come miglior pezzo dell’album e in cui, nell’ambito di una melodia delicata, Mascis riesce a irrompere con un assolo distorto di pochi secondi ma incisivo come lo sono quelli presenti in ogni singola canzone del disco con un inizio, uno svolgimento, una fine e soprattutto un perché.