Visto dall’alto il Ruanda è un accostamento di colori che richiamano l’intrinseco valore della sua terra. C’è il polmone verde dell’elevato altopiano, coperto di praterie, ci sono le sfumature brune delle montagne più aspre e le striature azzurre dei fiumi, con la bella macchia celeste di uno dei Grandi Laghi d’Africa che completa il vivace colpo d’occhio. Francis Offman (classe 1987) è partito da qui, o meglio, in modo inconscio e profondo, ha fatto suoi i ricordi della sua patria in cui trascorse buona parte dell’infanzia.
Stralci di vissuti più o meno nitidi aleggiano nelle opere di questo giovane artista attivo a Bologna, la città dal cuore sensibile che accoglie e stupisce, in cui decise di trasferirsi nel 2017. La voce di Offman ha infatti iniziato a farsi udire col progetto organizzato dal MaMbo per la ripartenza del Nuovo Forno del Pane, teso a riqualificare delle ex ciminiere ora tramutate in sedi espositive.
Con quei colori allegri le tele di Francis Offman si fanno semplici (ma non superficiali) geografie planimetriche, composte da diversi tasselli materici incastonati fra loro. Più che un collage ludico, il lavoro dell’artista va inquadrato nella poetica del riuso. È dunque nei materiali che converge la sua più intima ricerca e ciò che accomuna ogni sua opera fa così parte di “un’estetica dell’etica” su cui occorre riflettere a partire dall’interrogativo: che cos’è il riuso?
Si tratta dell’arte del ridar vita alle cose, ai dettagli ed alle loro storie, che tramite il nobile gesto del dono vengono riaccolte da un nuovo destinatario che fa proseguire la loro narrazione sempre più impregnata di vita. Questo è ciò che fa Offman e come chiarisce Simone Frangi nel testo che accompagna la mostra, “ogni materiale che passa tra le mani del pittore ci mette di fronte alla sua storia di estrazione, più o meno violenta, alla sua trasformazione e consumazione”. La maggior parte dei materiali impiegati è infatti frutto di un dono, che a sua volta nasce da un incontro casuale, da un gesto voluto, o dalla volontà di dare una seconda vita ad uno scarto. Offman varia dalla carta che avvolge le paia di scarpe, al cemento, all’inchiostro, ai fondi di caffè, alla selenite, purché ognuno di questi ingredienti abbia un significato.
L’artista ha ben compreso che tutto ciò che ci circonda e che costituisce il mondo è opera di miliardi di persone che hanno plasmato la realtà lasciandovi tracce che sopravvivono al loro lavoro e alla loro scomparsa fisica. Offman prova a comprendere il mondo da questo punto di vista riducendo nel proprio linguaggio e inserendo nei propri orizzonti mentali il senso e i contenuti di ciò che è stato tramandato. La storia degli altri si intreccia inevitabilmente con la sua e lascia poi al fruitore il compito di continuarla ancora.
Inoltre, già solo nei pochi esempi prima citati, si evince il continuum ideologico con quella curiosità concreta, figlia di quegli artisti che – a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta – hanno rivolto ad inediti materiali. Dalì, nella sua autobiografia (Secret Life), affermava che i materiali possiedono una loro vita: nascono, pretendono di essere considerati, invecchiano e muoiono. Attraverso i secoli e le esperienze negli atelier, nei cantieri e nei laboratori dell’arte, dinnanzi agli occhi degli artisti si è palesato che i materiali possiedono una propria esistenza e che le idee che si cristallizzano in essi – e grazie a ad essi –consentono infine di giungere all’essenza di una verità. Qual è la verità racchiusa nei lavori di Offman?
L’artista con le sue opere racconta una storia: è il racconto di una fuga, divenuta poi viaggio e dunque scoperta che si tramuta nel ritrovato senso dell’integrazione e dell’accoglienza delle persone, dei luoghi e persino delle cose. La narrazione diviene così testimonianza di vita e partecipazione attiva di ciò che ci circonda.
Francis ricorda l’orrore del genocidio della patria d’origine, che assume i colori più cupi, i quali a loro volta richiamano quelli della terra umida e porosa, quella terra che, una volta in Italia, calpesta raramente, poggiando invece i piedi sull’asfalto. Persino la banale azione del camminare porta a relazionarsi involontariamente con un elemento concreto, che è immagine della sopraffazione umana sulla natura. Questo materiale bituminoso, poi, è quello che racchiude emblematicamente il dettaglio di un evento drammatico che ha generato una protesta sociale di ampia portata: la battaglia dei “black lives matters” di cuil’artista sottolinea che,nell’attimo dell’ultimo respiro esalato da George Floyd, la sua guancia premesse proprio sul caldo asfalto. Ecco che i materiali divengono simboli, oltre che concrezioni visive: vere e proprie nature morte che raccontano diviolenza, di morte e divita.Un unico legante unisce i frammenti di questostilleven materico, in cui sono inevitabilmente fuse riflessioni su questioni attuali, che convergononella tematica della migrazione. Luogo e non-luogo divengono i soggetti racchiusi nella ricerca dell’artista: dalla selenite (una varietà del gesso) che contraddistinguela storicità della città di Bologna, all’annullamento dei confini per l’esportazione del caffè.
Non importa cercare di individuare cosa rappresentino le opere di Offman, perché esse profumano di viaggio, di storia e di un’umanità negata, però da lui ritrovata.
La mostra è visitabile fino all’8 gennaio alla galleria P420 di Bologna
Via Azzo Gardino 9
40122 Bologna