Milano e New York, collezionismo e pandemia. A due anni dall’apertura italiana, Irene Cassina e Giovanni De Sanctis, rispettivamente fondatrice (insieme al fratello Marco) e direttore di Cassina Projects, hanno condiviso con Artslife alcune considerazioni sull’anno passato e parlato dei propri progetti futuri.
Nel 2019 avete deciso di spostare la Galleria da New York a Milano. Quali sono le esigenze che hanno guidato questa decisione e come è cambiato il vostro modo di lavorare rispetto a prima?
Lo spostamento è avvenuto in modo organico, anche se quando abbiamo fondato la Galleria non era stato preventivato. Inizialmente eravamo alla ricerca di una nuova sede a New York che ci desse la possibilità di realizzare progetti più impegnativi in termini dimensionali. Nel mentre, ci è capitato di vedere gli spazi che attualmente ci ospitano e li abbiamo ritenuti adatti ai nostri progetti. La metratura attuale ci permette di fare cose che a New York erano impossibili, come avere un grande magazzino sempre a disposizione oppure ospitare gli artisti.
Ospitarli per delle vere e proprie residenze?
Lo spazio nasce specificamente con lo scopo di poter essere uno studio ed eventualmente una residenza attiva parallelamente al nostro programma espositivo. Abbiamo già ospitato un artista nel 2019 e il prossimo arriverà a gennaio 2022. L’obbiettivo è quello di dare la possibilità a chi ne abbia bisogno – che siano artisti da noi rappresentati ma non solo – di instaurare un dialogo con la città e lavorare a stretto contatto con la stessa.
È qualcosa di abbastanza unico nel panorama milanese…
Effettivamente la duplice natura di galleria e incubatore culturale è un modello abbastanza unico in Italia, forse più comune altrove. L’idea ci è venuta precocemente, quando eravamo ancora a New York, e ora che ne abbiamo la possibilità intendiamo svilupparla in modo tale da creare un percorso coerente e continuativo. Per quanto riguarda la modalità di selezione degli artisti ospitati, che come detto non saranno soltanto quelli da noi rappresentati, questa andrà affinata progressivamente, a seconda delle aspettative e dei programmi della Galleria.
Avete mai pensato di tornare a New York o di espandervi altrove, magari con una sorta di “temporary hub” espositivo?
Per quanto riguarda l’attuale rapporto con la vecchia sede, quello che rimane non è tanto uno spazio fisico (che di fatto non c’è più, salvo un piccolo inventario di alcuni lavori), quanto piuttosto i rapporti costruiti negli anni con artisti e istituzioni, che continuiamo a coltivare grazie a viaggi abbastanza frequenti. Di un “temporary” si è già discusso, ma per ora resta ancora un’idea.
Quanto sono stati coinvolti gli artisti che rappresentate nella decisione di spostare la vostra sede fisica?
Abbiamo scelto di trasferirci a Milano dopo tre anni dall’apertura della Galleria, dunque quando eravamo ancora abbastanza “giovani”. Iniziando a lavorare con artisti con una certa esperienza, la decisione di cambiare continente influenzava inevitabilmente tutte le dinamiche di collaborazione, ma quando li abbiamo interpellati per avere un loro parere, tutti si sono dimostrati felici di questa idea.
Parliamo di fiere. Preferite concentrarvi su quelle estere rispetto alle rassegne italiane?
La mancata partecipazione agli appuntamenti italiani degli ultimi anni in realtà è stata più il frutto di una serie di coincidenze che una scelta di scuderia. Il rinvio di Artissima ha fatto sì che coincidesse con Westbund, un’importante fiera di Shanghai con cui eravamo già impegnati. Per quanto riguarda invece Miart, lo spostamento delle date ci ha spinti ad aspettare.
E per quanto riguarda le fiere estere? In base a quali criteri decidete a quali prendere parte?
Decidere di partecipare a una fiera è un processo molto articolato, per il quale vanno considerati diversi fattori. A noi piace ragionare in termini coesi, dunque non vediamo mai una fiera come fine a se stessa, quanto piuttosto come un intermezzo coerente con il più ampio progetto della Galleria. Le scelte fatte fin ora e le idee per il futuro sono influenzate da considerazioni che coinvolgono non solo il tipo di fiera, ma anche il segmento di pubblico a cui vogliamo rivolgerci e le scelte curatoriali dell’evento stesso. Importante è anche la dislocazione geografica, elemento fondamentale per entrare nel dibattito culturale estero. A febbraio saremo a Città del Messico e poi andremo a Dallas, ma guardiamo anche verso Oriente. In generale, stiamo molto attenti a quelli che potrebbero essere gli sbocchi di mercato più interessanti.
Parlando invece di collezionismo, come definireste il vostro target? Coerente al suo interno o piuttosto “eclettico”?
Ci siamo trovati a interfacciarci con i collezionisti più vari, sia a livello geografico che anagrafico, cosa che riteniamo una fortuna, dal momento che significa che riusciamo a coinvolgere categorie differenti. Certo, da un lato questo rappresenta una responsabilità maggiore, che ci “costringe” a calibrare le nostre proposte su gusti eterogenei, ma per converso rappresenta anche la possibilità di avere un seguito eterogeneo e complementare.
In base a cosa scegliete gli artisti con cui collaborare? Avete in programma qualche aggiunta alla vostra scuderia?
Al momento stiamo valutando qualche integrazione, ma è sempre un processo che va affrontato con i piedi di piombo, dal momento che è fondamentale che tra noi e gli artisti ci sia una visione comune e la volontà di percorrere una strada condivisa. Abbiamo sempre considerato l’artista come protagonista attivo della vita della Galleria, e proprio per questo evitiamo di essere troppo veloci nell’aggiungere nuovi nomi.
Tra le nuove collaborazioni potrebbe esserci anche qualche giovane artista italiano?
Non sveliamo nulla, ma possiamo dire che verso fine anno potrebbe essere una novità in questo senso. Per l’ultima mostra della sede di New York avevamo organizzato una collettiva di italiani, una sorta di anticipazione del trasferimento. Toccava diverse generazioni, da Pino Pascali a Antonio Fiorentino. Nel caso di artisti giovani, comunque, è sempre fondamentale considerare con attenzione i tempi di maturazione degli stessi, che al giorno d’oggi sono diversi rispetto ad alcuni anni fa.
Cos’è cambiato?
Dieci anni fa con “giovane” si intendeva un artista di 30/35 anni, età a cui si doveva aggiungere un periodo di incubazione posteriore agli studi perchè il suo stile maturasse. Ora la soglia anagrafica si è abbassata, tanto che a 26 anni un artista può già considerarsi “fatto e finito”. Questo comporta un’ovvia accelerazione anche nelle logiche decisionali che una galleria deve adottare. A noi interessa molto capire queste dinamiche, senza però trascurare l’obbiettivo fondamentale, cioè la creazione di un rapporto duraturo e longevo con chi rappresentiamo.
Immancabile domanda sulla pandemia. Ci sono stati mutamenti significativi nel vostro rapporto con gli artisti e i collezionisti? E nelle esigenze del pubblico?
Anche noi – come tutti d’altronde – ci siamo adattati al distanziamento fisico incrementando la nostra presenza digitale. Abbiamo organizzato una bellissima mostra da remoto, incontrando gli artisti coinvolti dopo un anno. Nonostante alcuni cambiamenti in questo senso fossero probabilmente già nell’aria e la pandemia non abbia fatto altro che accelerarli, crediamo comunque nella necessità di mantenere una relazione reale sia con gli artisti che coi collezionisti. Venendo a mancare la possibilità di fruizione di uno spazio fisico, forse si può dire che il gusto del collezionista abbia acquisito un impatto sempre maggiore nel guidare le scelte di acquisto.