Questo articolo è frutto dell’operato degli studenti del Laboratorio di scrittura, iscritti al Master Post Laurea “Management della Cultura e dei Beni Artistici” di Rcs Academy”, tenuto tra dicembre 2021 e gennaio 2022 da Luca Zuccala, vicedirettore della nostra testata. La collaborazione tra ArtsLife e Rcs Academy ha dato la possibilità agli studenti partecipanti al Master, dopo le lezioni di introduzione, pianificazione e revisione dei contenuti proposti, di pubblicare il proprio elaborato sulla nostra piattaforma.
La regista neozelandese ritorna nelle sale cinematografiche con “Il potere del cane”, un film prodotto da Netflix, con protagonisti Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst.
A quasi trent’anni da “Lezioni di piano” (1993) e a tredici da “Bright Star” (2009), la regista e sceneggiatrice neozelandese Jane Campion torna a dimostrare la grandezza della sua visione cinematografica e la profondità della sua indagine nell’animo umano grazie a “Il potere del cane”, vincitore del premio alla Miglior Regia alla Mostra del Cinema di Venezia 2021 e trionfatore ai Golden Globe 2022 con ben tre “globi d’oro”: Miglior film drammatico; Miglior regista Jane Campion; Miglior attore non protagonista Kodi Smit-McPhee.
Dopo il passaggio nelle sale cinematografiche, dallo scorso primo dicembre il film è visibile sulla piattaforma Netflix che lo ha anche prodotto. Dietro l’aspetto di un western crepuscolare che contrappone sterminate praterie ad un’introspezione psicologica molto accurata, si cela una forte carica simbolica, già visibile nel titolo: lo stesso del romanzo scritto da Thomas Savage (1967, edito in Italia da Neri Pozza) da cui la Campion ha adattato la pellicola. Il “potere del cane”, infatti, è citato in un versetto dei Salmi letto da uno dei personaggi e fa riferimento a quegli impulsi dell’inconscio, in cui aggressività ed eros, istinti che attingono alla stessa fonte, soggiogano l’individuo rendendolo schiavo di sé stesso, come in ostaggio di un groviglio pulsante dall’impossibile risoluzione.
Ambientato nel Montana degli anni Venti narra le vicissitudini dei fratelli Phil e George Burbank che portano avanti con successo il loro ranch malgrado il rapporto conflittuale per via dei caratteri diversi: Phil (Benedict Cumberbatch) è intelligente ma allo stesso tempo crudele e dedito al duro lavoro; mentre George (Jesse Plemons) è meticoloso, indossa abiti sartoriali e preferisce costruire rapporti con la classe borghese locale, piuttosto che ricalcare le azioni di Bronco Henry, un vecchio cowboy che spesso Phil rievoca al pari di un vero e proprio mentore; contrariamente George (marcando ancora una volta le loro differenze) sembra essere disinteressato al ricordo di un uomo che, in fondo, gli ha solo dato lezioni di cavallo da ragazzo.
Dopo qualche tempo, grazie alla sua gentilezza, George riuscirà a sposare Rose (Kirsten Dunst), la proprietaria di una locanda, che si trasferirà poi nella magione dei Burbank insieme al figlio Peter (Kodi Smith-McPhee), quarto ed ultimo personaggio chiave. A questo legame Phil si oppone con grande disprezzo, iniziando a tormentarla e facendola scivolare in un turbine di profondo malumore e abuso di alcolici. All’apice della sua sfida contro la donna, dopo averlo denigrato e bullizzato fin dal loro primo incontro, Phil prende sotto la propria ala il giovane Peter che, delicato ed effemminato, è tutto il contrario del mandriano. Questa inaspettata vicinanza tra due personaggi così speculari porterà Peter a scoprire l’animo umano di Phil. Si tratta di un momento di grande ambiguità, in cui i ruoli di vittima e carnefice sembrano quasi invertirsi, al punto che sembra innescarsi persino un’attrazione sessuale tra i due. Ma è davvero così? Oppure il ragazzo, deciso a difendere a ogni costo la madre, intende avvalersi del lato debole di Phil? Lo spettatore è chiamato a scoprirlo a solo, rimanendo vigile e investigando -anche- su una morte sospetta.
Fin dalle sue prime produzioni Jane Campion ha sempre indagato nell’animo di personaggi femminili, spesso indimenticabili come Ada McGrath (Holly Hunter) in “Lezioni di piano” o Isabel Archer (Nicole Kidman) in “Ritratto di signora” (1996); ein questa pellicola sorprende scegliendo una storia profondamente maschile tanto nei temi quanto nei turbamenti. Sia la critica che il pubblico hanno spesso elogiato le sue abilità registiche audaci e provocatorie; infatti in “Il potere del cane”, la Campion restituisce senza fronzoli un ‘maschilismo tossico’ (così come l’ha definito lei stessa durante una conferenza stampa a Venezia ’78) che cela un terribile bisogno d’amore che dilania anche i cuori – maschili – più insospettabili.
“Il potere del cane” è quindi una pellicola ricca di sfumature ma serrata nella trama che rimane impressa nell’immaginazione dello spettatore, incollato alle inquadrature e agli sviluppi di una narrazione in cui Phil, Rose e Peter non solo si scontrano in una guerra psicologica ma si manipolano anche l’un l’altro fino all’intelligibilità delle vere emozioni che li guidano. La regia della Campion riesce ad intrecciare saldamente (e intenzionalmente) le intimità nascoste dei protagonisti tra le fila di una grande narrazione modernista che, dopo aver cambiato più volte il punto di vista nel corso della storia, arriva ad una conclusione che non libera, bensì chiude, vanifica e soffoca le aspettative. Da segnalare, infine, le prestazioni degli attori, in particolare quella di Benedict Cumberbatch che ancora una volta dimostra la propria versatilità smentendo le voci di chi lo credeva troppo esile per la parte di Phil, riuscendone invece a incarnarne precisamente la tormentata ambiguità.