È ormai da qualche tempo che, per ridare vampirescamente sangue a quel corpaccione morente del contemporary, alcuni critici, storici, impresari, intellò – chiamateli come ve pare – vanno avanzando teorie estetiche prossime al defunto concetto di engagement, riesumandolo appunto.
Orfani delle decedute ideologie, della comfort zone che procuravano e della retorica avanguardista, si aggrappano, gli intellò, alla chimera nata dall’insano innesto, creato nei laboratori ’mericani, che vede l’artista come testimone degli eventi storici e delle eventuali modalità di intervento possibili, sviluppando un linguaggio cross-over tra il giornalismo documentario e la testimonianza in salsa rigorosamente politically correct.
Vale a dire che l’homo occidentalis e la sua cultura sono una merda.
Naturalmente i sapientoni nostrani ci mettono un po’ anche del loro – che tanto ci narra circa il loro background – coniando neologismi tipo Artivismo oppure slogan “ma-anchisti” dal sapore veltroniano quali “Politica degli impolitici” che ricorda tanto la ossimorica corrente del Realismo esistenziale, riportandoci a quella stagione a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta che vide tanti bravi artisti incagliati nelle provinciali maglie ideologiche del marxismo nostrano, tra fede politica e ragioni della pittura, riuscendo nel capolavoro di perdere sia il treno in corsa dell’Informale che il convoglio in formazione dei fab sixteen.
Insomma, per dirla come Tom Wolfe, nostalgie de la boue.
Dunque all’antica diatriba tra la dottrina dell’art pour l’art in contrapposizione all’etica che esige dall’arte di essere utile, risponderei come Baudelaire: “Essere un uomo utile mi è sempre parso qualcosa di ben orribile”.
Inutili Saluti
L.d.R.