Alessandra Sarchi è nata a Brescello (Reggio Emilia) nel 1971 e oggi vive a Bologna. Ha studiato storia e critica d’arte alla Scuola Normale di Pisa e ha conseguito, nella stessa materia, un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha vissuto e lavorato in Francia e negli Stati Uniti. A Bologna è stata consulente presso il Museo Civico Medievale e la Fondazione Federico Zeri. È membro della giuria del premio Russo Pozzale.
Ha pubblicato Segni sottili e clandestini (Diabasis 2008). Per Einaudi ha pubblicato il romanzo Violazione (2012), vincitore del premio Paolo Volponi opera prima, L’amore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017), vincitore del premio Mondello, del premio Wondy e finalista al premio Campiello e Il dono di Antonia (2020). Inoltre è autrice del podcast Vive! realizzato con Federica Fracassi da FM storie libere con la collaborazione del Piccolo Teatro di Milano e il Corriere della Sera. È ora in libreria con la raccolta di racconti Via da qui (Minimum Fax).
Ciao, Alessandra.
In quest’intervista, parliamo dei tuoi libri, dei tuoi interessi letterari e storico-artistici.
- “D’altronde io stessa nei confronti della letteratura mi sentivo una ladra, un’ospite temporanea, nessuno mi aveva dato il permesso di scrivere”. Queste sono le parole della protagonista di La notte ha la mia voce, romanzo pubblicato da Einaudi Stile Libero nel 2017, in cui racconti un nodo cruciale della tua esistenza, il momento in cui hai sentito che qualcosa dentro di te era morto per sempre, il momento in cui hai avvertito uno “scollamento” definitivo rispetto a una parte del tuo corpo. Ti consideri, veramente, una ladra nei confronti della letteratura? E perché dici questo?
L’ammissione nella cosiddetta Repubblica delle lettere non è mai un fatto scontato, ci vuole una forma di riconoscimento da parte di chi scrive e ha già avuto altre forme di riconoscimento, da parte dei lettori e della critica. L’io narrante de La notte ha la mia voce, vive una duplice metamorfosi: quella di chi deve ripensare il proprio corpo in seguito a un trauma e quella di chi ha deciso di seguire la propria vocazione alla scrittura. In entrambi i casi i modelli sono pochi, perché una donna in sedia a rotelle che scriva e per la propria scrittura e voglia essere riconosciuta, non per il fatto di sedere su un oggetto ingombrante, deve superare diverse barriere: quella del genere, poiché agli uomini si concede molto più facilmente autorevolezza nella presa di parola, e quella della disabilità e non conformità rispetto ai canoni del corpo.
- In La notte ha la mia voce, è fondamentale e, in qualche modo, salvifico l’incontro con Giovanna – alias la Donnagatto, alias Veronica. La conoscenza di questa donna è molto importante dal momento che ella indica alla protagonista del romanzo le armi da indossare per affrontare la situazione in cui si trova, mostrandole come il desiderio di vita continui a vivere, al di là del corpo, in ciascuno di noi. È esistita davvero questa donna?
La notte ha la mia voce non è una autobiografia, semmai a volerla proprio incasellare è una autofiction, quindi sia l’io narrante sia gli altri personaggi sono frutto di un misto di elementi reali e immaginazione. La Donnagatto in quanto tale non è mai esistita, ma ho incontrato alcune donne che mi hanno suggerito parte dei suoi tratti, per altri aspetti la Donnagatto è una parte di me meno evidente, e che nella scrittura ha preso una sua tridimensionalità. D’altronde il bello della letteratura è che può dare corpo alle fantasie che occupano nella nostra psiche uno spazio non inferiore alla cosiddetta realtà.
- Nei tuoi libri, ritorna sovente il riferimento al corpo: il corpo come un involucro esterno che racchiude la nostra psiche, ciò che interiormente ci anima. Noi conosciamo la vita attraverso il corpo, e, nel momento in cui cerchiamo di annullarci come corpo – penso ad Anna, uno dei personaggi del tuo libro Il dono di Antonia – miriamo, in fondo, ad annullarci come persone. Come possiamo “abitare” il nostro corpo, prendendoci cura di esso, senza farci divorare dalla paura di essere solo corpo, solo materia?
Forse bisognerebbe proprio partire dalla distinzione fra materia fisica e psiche o mente che appare sempre più sbagliata e dannosa. Si tratta di una distinzione profondamente radicata nella cultura occidentale almeno da Platone in poi, e comporta una gerarchia, un primato della mente sul corpo, visto come luogo di impurità, come fardello, in definitiva trascurabile.
Solo ricomponendo l’unità complessa che siamo di moti interiori e di sostanza materiale, è possibile avere cura di sé. Altrimenti il rischio è quello di considerare il corpo come un cappotto: da usare, cambiare, restringere, mettere sotto naftalina. Ma non è così, il corpo è il nostro terreno di scambio con l’esterno, con il mondo e gli altri.
- Pena, indifferenza, distanza: in questo modo, le persone “normali” tendono a rivolgersi nei confronti di coloro che vedono in difficoltà, compiacendosi, segretamente, tra sé e sé, di non essere nella condizione gravosa di chi hanno davanti. Cosa diresti, ora, alle persone che ti hanno guardato con occhi di infida commiserazione e compassione?
Non c’è molto da dire, se non che la paura per la diversità è comprensibile, ma non giustifica atteggiamenti discriminatori che purtroppo subisce chiunque si trovi in una condizione di difficoltà e minorità. Dovremmo tutti quanti allenarci al rispetto per l’alterità.
- Scrivere della propria malattia: sono molte le autrici che ne hanno scritto in passato – penso aOn beingIll di Virginia Woolf – e che ne scrivono oggi giorno – un esempio è il romanzo di Francesca Manocchi, Bianco è il colore deldanno. Quanto ti ha aiutato scrivere, e quindi rivivere, il momento in cui hai perso la vita che conoscevi?
In realtà, la letteratura sulla malattia, è recente e non conta così tanti esempi, perché la malattia vista come condizione narrabile fa parte dello scenario solo moderno e soprattutto post-moderno. Il Novecento con le sue scoperte scientifiche, con la psicoanalisi e con l’esperienza devastante di guerre mondiali ha riportato l’attenzione sul corpo e sulla sua dicibilità, prima era inimmaginabile. Trovo interessante che la medicina si sia accorta del valore terapeutico del raccontarsi e dello scrivere e stia cercando con quelle pratiche che vengono definite MedicalHumanities di usarle come strumenti di cura. Non necessariamente da queste pratiche nasce letteratura, ma è evidente che qualsiasi forma espressiva aiuta a stabilire comunicazione fra chi soffre un disagio e il prossimo, anche perché la malattia non è mai un fatto solo privato, ma ha numerosi legami con la società in cui si verifica.
- I tuoi romanzi sono ricchi di descrizioni di opere d’arte: in Il dono di Antonia, la Pala di Brera di Piero della Francesca; in La notte ha la mia voce, Bolle di sapone di Jean-Baptiste-Siméon Chardin. Hai studiato storia e critica d’arte alla Scuola Normale di Pisa e hai conseguito, nella stessa materia, un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Cosa ti ha spinto a studiare e scrivere di storia dell’arte? E dove trovi più libertà: nello scrivere di storia dell’arte, seguendo un metodo storico e filologico, o nella scrittura di romanzi, dove rielabori il tuo vissuto?
Ho iniziato a studiare storia dell’arte perché non sapevo dare un nome alla bellezza: guardavo monumenti, palazzi, chiese, quadri e sculture come incantata da un codice che non conoscevo e di cui volevo impadronirmi. Le immagini hanno un loro codice che non è omologo di quello verbale. E anche lo scrivere di arte ha un suo codice, diverso da quello della scrittura cosiddetta creativa. A essere sincera mi sento libera in entrambi gli ambiti poiché scrivere per me significa sempre rispondere a una necessità interiore di conoscenza e di approfondimento. Solo dopo che le ho scritte molte cose mi si chiariscono e non è solo una questione di messa a fuoco; sono proprio convinta che scrivere sia un atto di conoscenza.
- Sapresti indicarci tre scrittrici donne alle quali ti senti particolarmente legata?
Alice Munro che ha scritto solo racconti, il mio genere preferito e perché ha lavorato con i dispositivi della memoria; Elsa Morante perché ha saputo dare voce alla sconfitta e alla perdita; la poetessa Antonella Anedda perché come ma ha una formazione di storica dell’arte e pensa per immagini.