Sul finestrino della macchina si specchiano le fronde degli alberi che segnalano i confini della strada asfaltata. Mi sono spinto nelle campagne laziali, precisamente a Bassano in Teverina, nella provincia di Viterbo. Da un paesaggio collinare si innalza questo piccolo borgo antico, una lingua di case e costruzioni che sembrano attendere di essere fagocitate dalla vegetazione libertaria e selvaggia, che la circonda. Alle 16.00 ho appuntamento con l’artista Leonardo Meoni, il primo ospite di questa rubrica. Sono mesi che lavora all’interno di quello che un tempo fu una delle tante case-studio di Cy Twombly. Il palazzo, che si sta trasformando in una residenza artistica, è gestito da Amanita, la nuova galleria che ha aperto nel 2021 nel cuore di Firenze, ma che ben presto consoliderà la sua presenza anche a New York, con una seconda sede fissa. A Leonardo Meoni, che ha da poco concluso la sua mostra personale nella loro sede fiorentina, è stato offerto come atelier temporaneo la casa-studio dello stesso Cy Twombly, un luogo solitario, immerso nella campagna. Entrando in questo edificio si percepisce la totale connessione con la natura e forse si comprende anche il motivo per cui il celebre artista americano lo avesse acquistato come sua proprietà.
Alla parete sono ordinate alcune opere. Sono tele di circa due metri, sono quadrati e rettangoli di velluto sospesi a mezza altezza. L’ambiente è luminoso e le grandi vetrate rivelano con spavalderia la vegetazione che si trova all’esterno. È qui che la nostra chiacchierata ha inizio.
Leonardo, quando gli chiedo di raccontarmi di sé, mi parla del “movimento”, inizialmente resto un po’ perplesso, ma lo lascio proseguire. È nato a Firenze nel 1994, sembra molto legato alle sue origini, in particolare a quella dimensione naturale della vita, tipica di chi è cresciuto in campagna. Questo legame con l’ambiente rurale, però, non è un freno, è qualcosa che c’è, che esiste, un bagaglio che si porta con se ovunque si trovi. Il “movimento” mi spiega essere un elemento fondamentale per lui. «Per comprendere veramente le cose è necessario spostarsi, cambiare la propria prospettiva» mi dice Leonardo. Il “movimento” diventa un approccio essenziale per la comprensione di ciò che ci sta intorno, spostarsi in luoghi che non conosciamo, viaggiare, sono tutte azioni sensibili che ci permettono di scoprire sempre cose nuove.
Il suo è un fare nomadico, un continuo peregrinare alla ricerca di qualcosa di inesplorato. Tutto nasce dalla sua vicenda familiare. Fin da piccolo è costretto a dividersi tra diverse città senza mai poter mettere le radici in un solo luogo. Lo racconta con estrema pace interiore e lo fa sembrare la cosa più naturale al mondo. È inevitabile che tutto questo si ritrovi anche nelle sue opere.
Mi prende dalle spalle e mi sposta prima verso destra, poi verso sinistra e infine mi riposiziona al centro dell’opera. I punti di vista – mi spiega- sono tre: destra, centro e sinistra. Spostandosi l’immagine si modifica, il disegno varia e di conseguenza anche alla narrazione vengono aggiunti o sottratti alcuni elementi. Ecco che l’opera si trasforma in tre quadri distinti, mostrando che sia chi crea il quadro, sia chi lo osserva deve necessariamente muoversi per avere una visione totalizzante. Mentre parliamo salta fuori il nome di Nicolas Bourriaud e del suo libro The Radicant, Leonardo cita il critico francese e recupera la metafora botanica del “radicante”, quell’organismo capace di creare le sue radici sempre in nuovi luoghi. Capisco che gli artisti come lui sono i figli legittimi della globalizzazione, esseri capaci di sradicarsi con facilità e aggregarsi facilmente altrove, in una forma di continuo nomadismo. È lo stesso Bourriaud a comprendere come l’artista contemporaneo viva in una condizione di eterno esiliato alla ricerca di stimoli continui da diverse culture.
È curioso perché nonostante la pittura non sia fisicamente presente nelle sue opere, lui continui a chiamare ogni sua opera “quadro”. È stato studente dell’Accademia di Firenze, poi di Brera, la sua formazione è principalmente pittorica, ha lavorato con l’acrilico e con i colori a olio. Mi racconta di non essere stato uno studente modello e le sue parole sembrano lasciare intendere una sorta di rifiuto verso l’impostazione dell’educazione accademica di queste istituzioni. Leonardo nasce come pittore ma ben presto capisce che quella tecnica è troppo lenta se paragonata alla velocità del suo animo. Meglio il velluto, quello sì che reagisce e prende forma più rapidamente.
Con questo materiale l’idea di aggiungere materia su materia tipica della pittura o di toglierla, come accade con la scultura, non è neanche contemplata: la materia viene solo spostata ed è solo così che lui crea la narrazione delle sue opere. Spostare qualcosa significa creare movimento: le sue sono opere che potrebbero essere modificate all’infinito, così come accade quando si lavora con la sabbia, con la quale si può disegnare e cancellare con estrema libertà.
La scelta del velluto nasce da Prato, città in cui ha vissuto un periodo della sua vita e per spiegarmi questo nuovo capitolo della sua vita tira fuori un altro nome: Curzio Malaparte, scrittore, poeta e giornalista della stessa città toscana. In uno dei suoi libri più celebri, Maledetti Toscani, l’autore riflette sul popolo di questa regione, analizzandone usi e costumi. Parlando della città di Prato, racconta dei cosiddetti “cenciaioli”, i mercanti e gli operai di tessuti, che facevano arrivare da ogni parte del mondo stoffe pregiatissime. Lo scrittore toscano spiega che quando arrivavano, quei materiali mantenevano intatti le caratteristiche e gli odori delle terre da cui giungevano. All’interno di questi enormi rotoli di stoffa – racconta Malaparte – era possibile ritrovare anche conchiglie, piccoli oggetti e frammenti di materie provenienti dall’altra parte del mondo. Prato oggi è una città ricca di etnie, un luogo che è il risultato del movimento di merci e di persone. Leonardo è proprio lì che ha l’illuminazione. « Un giorno» – racconta l’artista- « Mentre stavo comprando laghinea, quella stoffa grossolana utilizzata per la pittura a olio, vidi un pezzo di velluto. Toccandolo mi accorsi che era davvero facile disegnarci sopra: era cangiante, bello, era il supporto perfetto per non intrappolare il movimento.» Il velluto è un materiale che ha la capacità di rendere evidente il concetto di “movimento” che si nasconde nell’interiorità dell’artista.
Leonardo tira la stoffa e la monta sul telaio. Partendo da immagini di archivio, inizia la narrazione sul velluto, prima con la mano, con la quale sembra quasi accarezzare la stoffa, poi prosegue con martelli, seghe e rastrelli. Quello che mi colpisce è la durezza degli strumenti utilizzati rispetto alla delicatezza di quel materiale. Sono gli attrezzi usati in campagna per potare le piante, per spostare la terra al momento della semina o per segare qualche arbusto vecchio in giardino. Leonardo non ha timore di usarli su quel materiale così prezioso. Davanti ai miei occhi, sacro e profano si mescolano e compiono una danza ancestrale su quella superficie. Quello che può sembrare una violenza sul velluto, non si placa. In alcune opere Leonardo utilizza anche la bomboletta spray: la vernice chimica va a ricoprire la superficie e il colore si accende. Mi verrebbe da fermarlo ma non lo faccio. L’opera diventa la sintesi di una serie di gesti performativi. Il velluto è capace di assorbire la luce e l’energia dei gesti, ma allo stesso tempo è un materiale capace di restituire tutto agli occhi di chi osserva.
Se con gli attrezzi e con le mani il risultato che ottiene è quello di cancellare l’immagine, con la bomboletta spray arriva al risultato opposto: l’immagine emerge e la vernice risalta le forme del disegno, attraverso i rilievi precedentemente creati.
Tutto il suo lavoro si muove su questa continua dicotomia tra creare e cancellare. L’immagine viene distrutta per poi essere nuovamente riportata alla luce.
Ci vuole coraggio a utilizzare quegli strumenti così duri su un materiale così delicato. I lavori di Leonardo sono opere sincere e vissute. Non sono scene o immagini immediate, sono scenari ambigui. Sono quadri monocromi, che hanno bisogno di un giusto tempo per essere compresi e in cui la vera protagonista è la gestualità. Il materiale rivela l’astrattezza di una narrazione transitoria e fumosa, simile a quella della memoria. I ricordi non sono mai nitidi, sono piuttosto ritratti sfumati di ciò che è stato.
Se si osservano le opere di Leonardo notiamo un’evoluzione nella sua produzione. I primi lavori, come Palmira (2019), Fog (2020) o Palms (2019), sono opere più dirette, potremmo dire iconiche: si comprende con facilità l’immagine che ci troviamo di fronte. Nelle opere più recenti, invece, la narrazione si complica, tutto diventa più fumoso, meno definito. In The Skin (2021), o in Escape of the Lion (2021), il racconto viene trattenuto e con lui la possibilità di comunicare. Sono ritratti di fantasmi, immagini che appartengono alla memoria collettiva e a quella personale dell’artista. Osservando queste ultime opere sembra che ci sia il rischio concreto che tutto quello che abbiamo di fronte agli occhi stia per scomparire. Anche la distruzione del ricordo è il preludio di un movimento futuro, poiché significa dar vita a nuovi meccanismi. La cripticità, delle opere più recenti, obbliga l’osservatore a una fruizione impegnativa dell’opera. Per osservare un lavoro di Leonardo Meoni è necessario rimanere vigili, essere pronti a spostarsi e a cambiare prospettiva continuamente. L’artista combatte la violenza dell’anti-movimento quadro dopo quadro, quasi fossero urli sinceri di libertà.
Da poco Leonardo Meoni, ha concluso due mostre molto fortunate: Cancellare senza permesso, la sua prima personale da Amanita a Firenze e una collettiva a Miami, durante Miami Beach Art Basel.
Leonardo, con quel fare nomadico che lo contraddistingue, si muove con grande delicatezza e con successo nel mondo nazionale e internazionale dell’arte contemporanea, e lo fa senza mai dimenticarsi le terre della sua origine. Per noi è sicuramente un “Sorvegliato speciale”.