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Viviana Valla

Viviana Valla (Voghera, 1986) non ha voluto inviarmi le fotografie dei suoi dipinti. Insisteva perché li vedessi personalmente. Aveva ragione, perché le foto impediscono di cogliere i sottili solchi, gli strati di bianco, le parole leggere: senza tutto questo i suoi lavori perderebbero gran parte del loro significato. «Tutto è nato dalle carte in cui facevo dei quadrati di gesso bianco su bianco, che incidevo. Il colore della carta era diverso da quello del gesso e mi permetteva di creare vibrazioni cromatiche, anche se minime. Il passaggio alla tela è stato difficoltoso, perché ho fatto, inizialmente, fatica a ricreare i graffi. Da qui si è originata una stratificazione sempre maggiore, anche se la superficie risulta piatta».

Aggiungi continuamente livelli, che immediatamente neghi, cancellandoli e sovrapponendovi segni e materiali.
«Il mio lavoro è un affermare e, nello stesso tempo, un negare. Si tratta di un atteggiamento costituente il mio modo di agire, non riguarda soltanto la struttura, ma anche i contenuti. Nel momento in cui scrivo una frase, subito vado a cancellarla. Il risultato sono, quindi, giochi di parole, che si rompono e si scompongono».

La componente verbale è significativa. C’è una ricerca anche nei titoli? Costituiscono un punto di partenza?
«Spesso una frase tratta da un libro o da una canzone diviene il titolo di un’opera. Il colore e le figure concorrono a rappresentare un percorso che si è avviato da una parola, che si ritrova, in modo più o meno evidente, sulla tela. Nei disegni, invece, seguo semplicemente una suggestione cromatica o segnica».

Ci sono elementi ricorrenti nel tuo lavoro. Cosa simboleggiano?
«Inserisco immagini microscopiche, che stampo da Internet, perché non voglio che siano nitide. Si tratta soprattutto di piccole case, che indicano l’atmosfera serena del nucleo famigliare. Ancora una volta, però, ne metto in dubbio il significato, perché ne disintegro la sicurezza, trasformandole in lapidi».

Altre figure ricorrenti sono i pesci. Anche in questo caso c’è una simbologia?
«In realtà tutto era nato nella loro essenza. Mi piaceva vedere queste piccole figurine che fluttuavano nel bianco, che poteva essere il mare o uno spazio astratto. In Home fish home, che costituisce un dittico con Highway’s fish, mi riferisco ai pesci, inserendoli in un’azione, ossia quella di seppellire il mio stesso cadavere, quindi scrivo che li farò annegare in modo che non possano più parlare».

Le tue opere possono essere considerate vicine all’astrazione e algide, per l’uso del bianco e delle figure geometriche, per la costruzione rigorosa degli spazi. In realtà credo siano estremamente intime, come testimonia un altro elemento che spesso inserisci, il giglio, che riconduce alla dimensione domestica e personale, ricordando le tappezzerie, la carta per foderare i cassetti o quella da lettere.
«Spero che nel mio lavoro si noti il contrasto tra ordine e disordine, che si riflette anche nel mio carattere. Nel mio studio ho bisogno di caos e di tranquillità: la tranquillità è data dalla sicurezza del luogo, la mia casa in cui so dove cercare tutto ciò che mi serve; il caos, invece, regna nella stanza, che è anche la mia camera, per cui spesso mi addormento con il pennello ancora tra i capelli. Nello stesso modo, le geometrie vengono distrutte perché tento di comporre un equilibrio, che non prevede la predominanza della costruzione rispetto alla parola. Mi piace ci sia un’ambivalenza polisemantica, a volte metto volutamente degli elementi in secondo piano, perché sono più intimi e personali».

Nelle tue opere si trova spesso un richiamo alla matematica, anche nei titoli, forse come ulteriore elemento che riconduce all’ordine?
«Apprezzo molto il numero per la sua componente visiva e per il fatto che, anche in questo caso, contiene un’ambivalenza di significato: il segno “più”, ad esempio, può essere anche una croce. Il numero, inoltre, mi permette di richiamare la ripetizione e la periodicità delle cose. La matematica è sempre stata, per me, accanto all’arte. Dopo il liceo artistico sperimentale, mi sono iscritta per un anno alla facoltà di Architettura».

Raccontami.
«Ho sempre avuto la matematica come passione, ne ero affascinata. Nell’indecisione di proseguire nel campo artistico o in quello scientifico, ho scelto la facoltà di Architettura, facendo anche, però, i test per Ingegneria. Dopo un anno, ho capito che Architettura non era la mia strada e mi sono sentita leggera. Quando sono entrata in Accademia, a Brera, è stata una liberazione, mi è parso immediatamente di essere a casa».

Hai intrapreso percorsi diversi anche successivamente, visto che dopo il diploma in Pittura hai scelto di iscriverti al biennio in Comunicazione e organizzazione per l’arte contemporanea. Nelle tue opere si avverte l’assenza di un punto focale, di un centro, di un punto di vista univoco.
«Credo che i cortocircuiti siano necessari in ogni ambito. Nei miei lavori è come se rappresentassi me stessa. Vi sono la complessità, i dubbi, le perplessità e l’evidente fragilità. Sono componenti che nemmeno io riesco a definire e a cui lascio libero sfogo».

Come se fosse un flusso di coscienza, incanalato in schemi che distruggi e ricomponi? È questa una delle ragioni per cui nascondi e cancelli alcuni elementi?
«All’inizio, in accademia, per me è stato un trauma commentare le mie opere. Ricordo che, alla mia prima mostra, mi chiesero di parlare del mio lavoro, ma ero davvero senza parole. Era inutile che io aggiungessi qualcosa, allora dissi soltanto: “Avvicinatevi e guardate”».

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