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Intervista a Christian Zucconi

Nasce il 12 gennaio del 1978 a Piacenza. Profondamente colpito dalla Pietà Rondanini di Michelangelo, inizia a frequentare ancora bambino il laboratorio del piacentino Paolo Perotti, e, dodicenne, a Carrara presso il Laboratorio Corsanini scopre l’antica tradizione del marmo. Nel 1996 si diploma al Liceo artistico “Cassinari” e all’Istituto d’Arte “Gazzola” di Piacenza col massimo dei voti, ma non prosegue gli studi accademici perché apre il proprio laboratorio di scultura. Nel 1998 Piero Molinari organizza la sua prima personale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e nel 2002 Stefano Fugazza cura la sua prima monografia.  Si susseguono commesse pubbliche e religiose, mostre, riconoscimenti, un’importante monografia firmata ancora da Fugazza e da Alfonso Panzetta. Alla fine del 2007 Zucconi si pone una nuova sfida: dare nuova linfa e ulteriori prospettive alla lezione michelangiolesca del “levare il superfluo”. Dopo due anni di lavoro ritirato, silenzioso e ininterrotto, con l’organizzazione di Alain Toubas e la curatela di Rudy Chiappini, nel 2010 presenta la sua Rivoluzione Kenoclastica al Castello Sforzesco.

Rivoluzione kenoclastica è il titolo della tua ultima mostra (6 marzo – 25 aprile 2010, Castello Sforzesco, Milano).  Si è dovuto inventare un neologismo,  “kenoclastia”, per spiegare la tua tecnica (dal greco  “vuoto” +  “rompo”).  Che cos’è per te questa tecnica? Perché si parla di rivoluzione? Che significato ha  creare una scultura,  svuotarla, distruggerla? Significa trasformarla e donarle un significato nuovo?
La rivoluzione di cui si parla è prettamente tecnica, nessuno degli organizzatori ha pensato di promuovere “una rassegna di pretesa nuova scultura” (come taluni frettolosi critici l’hanno definita), sarebbe alquanto ingenuo pensare possibile una cosa del genere. Semplicemente e innegabilmente, la kenoclastia permette soluzioni formali fino ad oggi impensabili nella scultura in pietra. Basterebbe una domanda molto semplice per dimostrarlo: quante sculture in pietra ad oggi si sostengono in punta di piedi e slanciano nello spazio gli arti senza l’utilizzo di alcun sostegno? Nemmeno una. Eppure la Salomè esposta nella Sala delle Colombine sembra fatta apposta per dimostrare il contrario. Io e gli organizzatori vediamo la kenoclastia come uno strumento, un’invenzione tecnica alla stregua dei cavi d’acciaio che hanno permesso di sostenere i ponti senza l’aiuto dei piloni. Chiaro che qualsiasi strumento porta in sé anche una valenza semantica, in questo caso entra in scena l’estetica del frammento, del vuoto o meglio ancora dello svuotamento, che sublima la tecnica da virtuosismo fine a sé stesso in messaggio.

Dopo due anni di assenza, ti ritrovi a esporre nelle sale che ospitano uno dei capolavori assoluti di Michelangelo, uno dei più grandi scultori di tutti i tempi, il tuo maestro. Lo stesso percorso conduce fisicamente e simbolicamente alla Pietà Rondanini. Che cosa significa per te poter esporre le tue opere dialogando con il tuo modello?
Significa ritornare al punto di partenza per avere la possibilità di ripartire di nuovo. Per due interi anni ho sospeso volutamente ogni attività espositiva per sondare a fondo e senza interferenze esterne la strada che proprio la Pietà Rondanini mi aveva indicato: una scultura praticamente finita distrutta da un Michelangelo alla ricerca dell’essenza ultima della forma, quasi come se quell’essenza fosse la negazione stessa della forma, la sua distruzione.

L’intento di questa mostra e la spiegazione del perché è stata allestita delle sale dedicate all’arte antica del Castello Sforzesco, è quello di mettere a confronto, in una sorta di dialogo, l’arte antica e quella contemporanea. Lo stesso allestimento riflette questo concetto. Le tue opere si inseriscono in maniera armonica fra i capolavori della collezione del museo. Un occhio poco attento potrebbe anche non accorgersi che si tratta di una “mostra temporanea” all’interno dell’esposizione permanente. Gli stessi temi affrontati nelle tue sculture si inseriscono e si contestualizzano con l’arte antica. Ma è soprattutto in alcune che risalta la loro contemporaneità. Mi riferisco alla “Depositio Christi”: su un freddo tavolo d’obitorio è adagiato un corpo nudo. Nulla farebbe pensare che si tratta del Corpo di Cristo. Sull’alluce c’è addirittura il cartellino per il nome. Che cosa vuole esprimere questa scultura che affronta un soggetto universale rappresentato in maniera così inusuale?
Vuole esprimere l’umanità di Gesù di Nazareth. Che la fede lo indichi come il Cristo, il Figlio di Dio, oppure la mancanza di fede porti a ripudiare la sua dimensione divina, in entrambi i casi resta il fatto che fosse un uomo e che soffrì e morì da uomo. Sotto questo aspetto l’iconografia del corpo morto esposto non è affatto inusuale: ne vediamo degli straordinari esempi sia nelle tombe terragne nella prima sala del Museo d’Arte Antica, sia nel Gastone di Foix nella Sala degli Scarlioni; a rendere inusuale la mia Depositio Christi non è tanto il modo di rappresentarla, quanto il nostro modo di pensare alla deposizione: chi è nato e cresciuto in una cultura cattolica, che sia credente o no, ha per tradizione un’idea iconografica diversa.

Il primo concetto che affiora nella mente guardando le tue sculture  è quello di “sofferenza”. I corpi sono colti come in un’istantanea del “dolore”. Le fratture del travertino riflettono le fratture interiori. La fragilità oggettiva e soggettiva è resa attraverso il ferro che, come delle suture,  precariamente lega i pezzi dei corpi. Proprio questa sofferenza  è espressa  bene nella scultura dell’Edipo, con le labbra appena socchiuse,  un corpo arreso al suo dolore non solo fisico ma anche interiore. Le braccia abbandonate lungo i fianchi e la luce che passa attraverso le crepe, come fosse il dolore che crea una esplosione interiore. Perché rappresentare la sofferenza?  Edipo è colto al culmine del suo fallimento. Chiuso nella sua cecità reale e spirituale, come se non vedesse alternative e avesse perso la speranza. Cecità auto inflitta come punizione. Terribile ma voluta. Come hai scelto questo soggetto?  C’è una sorta di percorso letterario da scoprire all’interno della mostra? Il filo conduttore è sempre la sofferenza umana, dall’antichità classica al cristianesimo fino ai giorni nostri?
Direi piuttosto che è l’uomo stesso il filo conduttore della sofferenza. Se i miei soggetti sono spesso mutuati dall’antichità classica o dalla Bibbia non è per raccontare storie, ma per porre quelle stesse storie in un tempo mitico in cui il dolore possa essere razionalizzato e quindi compreso. Essendo totalmente imbevuto di classicità mi viene spontaneo rileggere gli avvenimenti della mia vita nel mito, è il mio modo di comprenderli, di “prenderli-dentro-di-me” e perciò accettarli. Non parto mai con l’idea di narrare una storia o esprimere un concetto, semplicemente metto in tre dimensioni quello che si materializza nella mia mente quando un pensiero o una sensazione la attraversano. Non utilizzo bozzetti preparatori, non eseguo nemmeno un disegno, semplicemente attacco violentemente il blocco cercando di estrarre quell’immagine che si è impressa nella mia testa: tutte le sculture in mostra le ho viste distintamente prima ancora di scolpirle, per questo non mi servono né bozzetti né progetti. Edipo è nato dall’immagine sofoclea della “pioggia nera”, è stata una visione chiarissima e nel giro di un mese la scultura era terminata tale e quale l’avevo veduta. La componente letteraria arriva un attimo dopo, quando capisco quello che ho visto, quando riesco a “leggerlo”, ma non c’è mai nulla di deciso a tavolino.

Religione e cultura del mondo antico e religione e cultura cristiana. Quanto pesa la spiritualità nel tuo lavoro?
È il motore unico. Sudare e sanguinare su un blocco alla ricerca di una forma equivale per me a pregare.

L’assessore alla cultura di Milano, Massimiliano  Finazzer Flory,  ti ha definito un artigiano/poeta. Ti rispecchi in questa  definizione?
Non solo mi rispecchio, ma ne vado addirittura fiero. Sono del parere che le idee da sole non bastino, ci vuole anche la capacità tecnica per attuarle, e quando sento dire che “si troverà sempre un bravo artigiano che metta in pratica le idee di un altro” non lo accetto. Io so per esperienza diretta (parte della mia formazione viene da lì: ho lavorato spesso in passato per altri scultori sui loro stessi bozzetti), che un lavoro non potrà mai essere tale e quale è stato pensato dall’ideatore, perché sarà in ogni caso filtrato dalla sensibilità dell’esecutore materiale, qualsiasi siano le sue doti mimetiche.

Cos’è per te la scultura? Hai sperimentato anche altre tecniche? Pittura, video arte, fotografia?
Un artista è un comunicatore, e qualunque sia il suo messaggio ha bisogno di un linguaggio. Sono tanti i linguaggi che mi affascinano, ma quando non voglio esprimere concetti (nel qual caso mi affido alla scrittura, cosa che per altro faccio spesso e volentieri), ma sensazioni, solo la scultura mi permette di rimanere fedele a me stesso. Forse perché solo trasponendo in forme tridimensionali le mie angosce e i miei incubi, avendo la possibilità di toccarli, respirarli nel momento stesso della loro creazione, ho la possibilità di razionalizzarli. La scultura mi ha salvato la vita.

Puoi spiegarci la tua tecnica? Come ti accosti al materiale, in che modo lavori. Come mai hai scelto il travertino? È corretto trovare delle assonanze tra il sangue come simbolo  della sofferenza e il colore leggermente rossastro del  travertino?
È correttissimo. Io vedo nel colore di fondo del travertino il sangue, così come nelle sue venature calcaree tendini biancastri che scorrono su fasci muscolari corrosi e cariati. Con quei buchi, con quelle fratture il travertino persiano è un materiale che soffre. Il mio stesso modo di lavorare ed approcciarmi al materiale lo impregna di sofferenza. Spesso nella foga della scalpellata mi scortico le nocche e le dita sulle asperità della pietra, ed è in quei momenti che il rapporto tra me e il travertino si fa intimo, unico; è in quei momenti che prendo parte fisicamente della sua mutazione e nello stesso tempo lo rendo partecipe della mia sofferenza; è una sorta di eucaristia mistica. È questo che intendo per preghiera.

Quale deve essere il rapporto delle tue sculture con l’ambiente che le ospita?
Un’opera deve poter respirare l’aria del posto in cui viene collocata. Ogni luogo ha la sua aria, la sua particolare atmosfera, e uno scultore dovrebbe poter sapere in partenza dove l’opera sarà infine collocata. Purtroppo non è sempre così, quindi spesso bisogna accettare il fatto che una scultura tenda a soffocare in uno spazio che non le si addice. Per esempio, la Depositio Christi di cui parlavamo prima è un’opera che nella Cappella Ducale ha trovato il miglior posto possibile per una collocazione, con quel gioco di sguardi che si crea tra la Madonna col Bambino e l’orante ai piedi del Cristo deposto che, ad uno sguardo attento, si rivelerà esattamente collocato sotto l’affresco del Cristo risorto. Il fatto è che al momento della lavorazione di Depositio Christi sapevo che avrei fatto la mostra al Castello Sforzesco, e sedendomi sulla panca della Cappella in un giorno di minima affluenza vidi esattamente quel cadavere sul tavolo anatomico oggi in mostra.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Alla fine della mostra al Castello Sforzesco alcune delle opere passeranno in Compagnia del Disegno, dove Alain Toubas le terrà esposte fino a giugno. Per “il dopo” invece si sta lavorando su un altro prestigiosissimo spazio pubblico, ma per ora non posso anticipare nulla. Mentre dal punto di vista spirituale, per ricollegarci a quanto detto prima, il mio unico progetto è rimanere onesto con me stesso. Oggi non sempre è così facile: le identità tendono a mutare molto in fretta e c’è il rischio di svegliarsi una mattina “dopo sogni inquieti” e non riconoscersi più.

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