Uscire dagli schemi con stile. Al Camec di La Spezia una retrospettiva per ricordare all’umanità che “alcuni poeti sono speciali, altri sonnolenti”. E che di Sarenco ce n’è uno solo
Capita solo una volta nella vita: nasci poeta e muori Sarenco (Vobarno, 1945 – Salò, 2017). E forse, alla fine, non sei nemmeno troppo morto, perlomeno non quanto l’anagrafe ti descrive. Non è un indovinello, mica siamo una versione online della settimana enigmistica qui. Ma la soluzione la trovate comunque a fondo pagina, tranquilli.
Per arrivarci, però, dovete farvi un giro con noi al Camec di La Spezia. Dove “La Platea dell’umanità” (fino al 14 gennaio 2024) è la retrospettiva dedicata a Sarenco, mitologico «artista totale» secondo la definizione del curatore – nonché grande amico di Sarenco – Giosuè Allegrini, è giusta: né troppo, né troppo poco per una selezione fatta su circa un migliaio totale di pezzi esistenti. Un migliaio. Siamo nell’ordine dello stretto indispensabile. Un dato: «con i pezzi rimasti si sarebbero potute allestire altre tre o quattro retrospettive simili», racconta un Allegrini molto confidenziale.
L’iper-produttività non è altro che “effetto collaterale” della Poesia totale, idea fattibile solo per un’anima espressivamente apolide come quella di Sarenco. Avvezza ad andare di fiore in fiore, impollinando col suo pensiero vivo una varietà di media che, a raccontarli tutti, abbiamo righe per almeno altri quattro articoli come questo. Anche perché, ricordate gente, «Ai poeti nulla è precluso» parola di Allegrini. Parola fondata sulla conoscenza del pensiero di Sarenco, che la poesia l’ha utilizzata come strumento di lotta. Lotta poetica ovviamente, titolo della rivista da lui fondata nel 1971. O come, continua Allegrini, stadio «intermedio tra ragione ed emozione», mettendo in Poetical licence l’accaloramento di una ragazza intenta a lanciare pietre, cartolina dell’Irlanda degli anni ’70.
Tra la poetica inoppugnabilità di un sillogismo – il viaggio è verità/la poesia è viaggio/la poesia è verità – e l’artistica certezza che “tutti prima o poi finiamo alla galleria d’arte moderna con un pezzo” (Museo, anno 1965), Sarenco è l’uomo che ha doppiato il tempo. Con uno e più pacchetti di fazzoletti “Tempo”; facendo “Tabù (sì, le mitiche ta-ta-bù della pubblicità, proprio quelle) la rasa” nei ready made verbali – prima che oggettuali – con cui è arrivato oggi al Camec. Fresco fresco one man di una retrospettiva pensata a mo’ di viaggio catartico: un portale, in alto c’è scritto “Gedicth Macht Frei”, “la poesia rende liberi”. Ricordare ed esorcizzare, evocare e intanto sovrascrivere le regole perverse della storia contemporanea. Aushwitz e l’Olocausto, Sarenco che si permette d’invertire il senso di marcia di una realtà efferata, come chi ti lancia quel salvagente che tanto aspettavi. Come “papà” Benigni faceva per suo figlio Giosuè ne La vita è bella.
Dalle opere di poesia visiva in poi, quindi dagli anni ’60 in poi, Sarenco ha avuto la capacità poetica di razionalizzare la parola. Di giocare con pubblico, arte, artisti e Mondo intero, cosa che in quest’epoca di “politicamente corretto” stiracchiato all’eccesso ci fa dire che sì, Sarenco è la nostra stella polare. L’uomo che, “statuario” e in bermuda a fiori, sta in fondo al corridoio con tatuato sul petto “some poet are special, some somnolent”. Una cosa è certa: nasci poeta, e se ti chiami Sarenco l’anagrafe non ti avrà mai. Il Camec per fortuna si.