Ha preso forma nel mese di maggio a Roma OOR – Out Of Residency, progetto espositivo a cura di Porter Ducrist che ha messo in dialogo i vari fellows delle Accademie di Roma con gli artist run space cittadini, creando una rete tra istituzioni culturali straniere e realtà indipendenti romane.
Roma, anche grazie a questo ‘contenitore’ e al numero significativo di spazi non profit che negli ultimi anni sono stati inaugurati, sta sempre più cambiando la propria morfologia culturale aprendosi a un modo di fare arte corale, dinamico e inclusivo.
Ne abbiamo parlato con Porter Ducrist.
Come sono nate le collaborazioni che hanno dato forma al progetto OOR – Out Of Residency?
Con un progetto come OOR è sempre interessante trovare un punto d’incontro. Gli OFF spaces di Roma sono sempre stati propensi a cercare nuove alternative in grado di dinamizzare la scena locale. Già da tempo, con il libro VERA di Damiana Leoni e la mostra Materia Nova presentata alla GAM da Massimo Mininni, si era percepita questa volontà collettiva di lavorare insieme e di dialogare su progetti comuni. Il terreno era fertile e c’era tanta voglia da parte di tutti, serviva giusto un’idea, un pretesto per concretizzare e affermare questo intento.
Per le istituzioni straniere, avevo già potuto confrontarmi con varie Accademie quando ero ancora direttore artistico di Spazio In Situ. Tra una chiacchiera e un’altra avevo percepito questo desiderio, bastava solo trovare come fare quadrare il cerchio.
È sempre stimolante mettersi a riflettere su qualcosa che non sia solo un ciclo di mostre ma un dispositivo che possa sviluppare nuove sinergie; era al centro delle mie preoccupazioni quando ero a In Situ ed è stato solo ampliato. Si è creata non solo una programmazione di mostre, ma si sono solidificate relazioni che già esistevano tra queste istituzioni estere e il territorio. Bisognava dare un messaggio, almeno credo, un esempio di quanto potessero essere importanti queste iniziative per il risveglio culturale di Roma.
Dopo aver capito che c’era la volontà da parte di tutti, toccava trovare un gruppo di temerari che potessero trasportare tutto il progetto; non vi nascondo che è stato stressante. Grande merito va al team La Zibaldina, composto da Lorenza Fruci, Anna Leonelli e Valentina Muzi, e a Sabrina Vedovotto, che ha saputo condurre i talk che abbiamo organizzato nelle Accademie.
Quale criterio avete adottato per selezionare gli artisti che hanno preso parte al progetto?
Quando si lavora con artisti in residenza, la selezione è fatta a monte da comitati. Non ho fatto altro che voler rappresentare una moltitudine di pratiche; la qualità e la competenza di questi artisti era già accertata. Si deve considerare che tutti questi residenti/fellows o borsisti hanno una ricerca che vale la pena conoscere, non potevo presentare tutti, anche se la voglia c’era. Purtroppo, si deve essere pragmatici anche quando si porta avanti un’utopia. In un progetto come OOR è importante saper mettersi da parte, lasciare libertà agli artisti. Nelle residenze la parte centrale è la ricerca, non come opera ma come potenzialità, questo è anche quello che si cerca con Out Of Residency, rappresentare questo tempo in divenire, cercando di porre delle domande senza rispondere, lasciando il pubblico libero di interpretare quello che vede.
Quali sono le tue strategie di collaborazione e di raccolta, i tuoi metodi curatoriali, e in che modo interagisci con le Istituzioni?
Quando lancio un progetto la cosa più importante è mantenere una linea concettuale; con OOR era più un’utopia che una linea: la linea traccia, l’utopia occupa. Dopo di che serve solo trovare un interlocutore che possa crederci e che voglia esserne parte. Questa voglia l’abbiamo trovata in certe istituzioni e in certi artisti. Si deve costruire insieme e parlare, parlare tanto, vedersi, capire ed essere chiari su quello che si vuole fare, cercando di comprendere come interagire insieme. Dopo un po’, quello che conta, anche per queste Istituzioni, sono gli artisti; ed è la parte che preferisco. Mi piace passare del tempo con gli artisti, andare a mangiare, confrontarci, non sul progetto, il progetto è secondario, quello che conta è quello che si pensa. Ho passato nottate con artisti a parlare di arte o di filosofia, del ruolo morale e di quanto la moralità sta rovinando quello che era il nostro mestiere. Credo che la storia dell’arte non si scriva nei musei o nelle gallerie, questa è unicamente la sua rappresentazione. No, la storia dell’arte è stata scritta tardi la sera attorno a una bottiglia di vino o su una tovaglia in trattoria o semplicemente su una panca in mezzo a un parco. Le cose succedono all’improvviso, è semplicemente così che le cose si possono fare. Come quando si comincia a pensare a una nuova opera.
Condivido; la storia dell’arte si espande nel dialogo, nella conversazione informale e intensa tra artisti e curatori, dediti alla loro vocazione.
C’è una cosa che tanti addetti non riescono più a vedere davanti a un’opera, ed è il momento di creazione. La gente vuole tutto e subito, e non capisce questo tempo di vagabondaggio, nel quale ci si perde e si sbaglia. Oggi si parla tanto di studio visit, ma spesso quello che succede è che si pongono le domande sbagliate, cercando di identificarsi in un’opera non compiuta, ma è proprio nella sua incompletezza che si può immaginare quello che potrebbe divenire. Si cerca di vedere quello che è l’opera, piuttosto che quello che potrebbe essere, e questa cosa contamina la nozione di arte, che deve vivere nel condizionale per tramandare qualcosa. Con OOR era proprio questo momento di transizione che si cercava di mettere in mostra.
Come si finanziano le residenze? Quali sono i dilemmi e le opportunità?
Il finanziamento è sempre un soggetto difficile da abbordare, soprattutto qui in Italia. Quando si vedono gli Istituti di Cultura stranieri, si capisce la strategia diplomatica intrapresa dai singoli paesi. L’Italia questa programmazione lineare non l’ha. Istituzioni come Villa Massimo o Villa Medici sono luoghi di rappresentanza, dove si mette in mostra l’eccellenza culturale nazionale, è un vero utensile d’apparato, si fanno scelte strategiche mirate. Quando si guarda la programmazione degli Istituti di Cultura italiani, si percepisce una cosa, che non c’è strategia dietro, perché non c’è un sistema, o meglio, c’è qualcosa che crede di essere un sistema ma purtroppo non funziona. Se in Italia non c’è una forza motrice che permette di spingere avanti non solo gli artisti ma le iniziative, diventa impossibile immaginare di brillare all’estero; al contrario, serve ripensare completamente il sistema dell’arte, ridefinire missioni e obbiettivi, perché credo che “organizzare mostre” per un museo si possa considerare come un obiettivo primario. Quando si sono capiti gli obiettivi si può cominciare a pensare al modo in cui raggiungerli. Questo aspetto, che possiamo anche qualificare come politico, è la responsabilità di chi dirige queste istituzioni.
Un sistema è diviso in tre strati di competenza: Tattico / Operativo / Strategico, ognuno deve capire quali sono i propri compiti, solo così si potrebbe risvegliare la scena contemporanea italiana. Credo che sul Tattico, gli OFF Spaces stiano facendo un ottimo lavoro, questo progetto ne è una dimostrazione, ma questo tipo di iniziativa accade in tutta Italia, va notato, apprezzato e sostenuto, sperando che chi si occupa della parte strategica del sistema abbia l’intelligenza di capirne le potenzialità. Su questo posso dire che si stanno facendo dei passi in avanti a livello nazionale ma la strada è lunga e tutta in salita.
Quando una residenza è ben strutturata, porta i frutti auspicati?
I frutti auspicati; dipende da quali sono gli obiettivi, sé si lavora per promuovere la cultura e per cercare di offrire nuove alternative, qualsiasi iniziativa porta i suoi frutti. Ma sé lo scopo è quello di autopromuoversi, l’idea e l’intento sono opposti, e questa cosa si percepisce. Il termine residenza d’arte, come quello di artist run space, è stato usato in modo più pubblicitario che ideologico, e in certi casi si è svuotato. Una residenza è uno strumento di ricerca, una realtà che esiste nel divenire, nella scoperta di un luogo sconosciuto. Per questo devono avere una certa durata, devono mantenere un’incognita sul risultato sia per chi ospita sia per chi viene ospitato, nel caso contrario sono vacanze produttive. Una residenza che dura troppo poco è una villeggiatura, si va in questo posto per produrre qualcosa di già predefinito, il risultato è premeditato. La domanda in questo caso è: perché andare li per fare quello che posso fare qui? Da questa domanda decade tutta la ragione di esistere di questo tipo di iniziative.
Per gli OFF spaces la domanda è altra e primordiale: cosa facciamo e per cosa? Se si apre un artist run space, le ragioni personali devono essere messe da parte. Tale iniziativa richiede sacrifici, tanti, tantissimi. Queste realtà esistono perché si deve rendere concreta un’utopia, quella di poter cambiare le cose. Senza questa fiamma che brucia all’interno di tanti miei colleghi, non si può immaginare di portare a casa qualche risultato. È una vera battaglia che si fa con il sistema dell’arte e con quello politico, non per farlo collassare, come tanti credono, tanto il sistema è già collassato e non per colpa nostra, ma per cercare alternative, provare a sviluppare questo sistema, cercando di farlo crescere. Questa finta definizione di spazi antisistema è fuorviante, è una vecchia visione, che cerca di separare le cose, di tenerle a distanza. È una logica riduttiva che si rinchiude su sé stessa, passo dopo passo, fino a isolare.
Oggi si sta ricreando una rete e OOR né è un frammento. In tutta Italia si percepisce questa nuova energia, questa voglia di ridefinire quello che è l’arte e quello che è la contemporaneità. Strutturandosi, queste realtà dette indipendenti – che è un termine totalmente sbagliato – stanno riproducendo quello che è sempre stato il motore culturale dell’Italia: l’Italia si sveglia tutta insieme, non per singole città. Quello che succede con l’arte contemporanea sta succedendo anche con la letteratura, il teatro e il cinema. Quello che potrebbe essere interessante è ricreare le connessioni non con le collaborazioni ma con dialogo e confronto. Tutti noi siamo dentro un contenitore più grande che si chiama cultura ed è per questa che facciamo quello che facciamo, con impegno e passione.
Quanto il dialogo tra tradizione e innovazione rende ogni progetto unico a Roma?
Unico non lo so. La città di Roma ha un grande difetto, la sua storia. Credo che la tradizione deve ogni tanto essere messa da parte. Non dico che va ignorata, ma non si deve cercare di competere, perché il mondo è cambiato. Se si deve parlare di arte contemporanea, si deve guardare quello che è oggi, o meglio, quello che si spera domani.
Questa città pesa su tanti artisti. L’arte sofferma quello che fluttua nell’aria, una cosa non definita, in sospensione, l’artista è quello che lo rende tangibile, come una superficie fotosensibile lascia apparire uno scorcio.
Quando si lavora a Roma si può giocare con la tradizione e la storia. Il più grande errore però è quello di copiarla, perché non serve a niente e perché lo hanno già fatto in tanti e il risultato è stato poco conclusivo, è una sorta di ripetersi che si allontana sempre di più da quello che è l’idea iniziale. In effetti, l’ambito artistico romano soffre di schizofrenia passiva. Ripete senza riflettere la stessa cosa sperando in un risultato diverso. Consapevoli che non siamo i primi a portare avanti questo tipo di iniziativa, cerchiamo di imparare dagli errori nostri e da quelli dei nostri predecessori.
Roma, attualmente, è sotto una lente per la scena alternativa, non perché la proposta sia migliore ma perché da tempo si aspettava il risveglio di Roma. Non so se si è svegliata, quello che so è che per svegliare questa città serve tempo, siamo in un punto che lascia apparire una speranza, ma rimane precaria. Questa cosa va protetta. Purtroppo più c’è interesse e più si avvicinano gli avvoltoi, enti che cercano di lucrare organizzando viaggi o addetti dell’arte che vogliono accaparrarsi una parte del merito. Queste iniziative vanno sostenute, sicuramente, ma non devono essere domate. Se c’è una ricchezza in tutte loro è la varietà dell’offerta e le differenze identitarie di ognuna.
Come sta cambiando ‘pelle’ la scena romana dell’arte visiva?
Ma non so se sta cambiando, questo è sempre un mistero. Lo si spera. Non si deve dimenticare che l’ambiente romano è peggio del pubblico della ROMA: quando tutto va bene, ti segue, sempre critico o geloso, ma ti segue. Quando hai un momento di debolezza, ti affonda e sparisce, alla ricerca della nuova bolla da far esplodere.
Adesso, a Roma, c’è una grande voglia di lavorare insieme. Si cerca di scrivere un nuovo capitolo tutti insieme. Si sta creando una sorta di federazione, un progetto collettivo che non cancella le varie identità ma, al contrario, si prova a sublimare, capendo che questo può essere una forza.
Più che a Roma, credo stia cambiando la mentalità in tutta Italia. Si percepisce il dialogo e il confronto, anche duro certe volte, ma costruttivo. Quando si parla di idee è giusto che ci siano momenti di tensione, che la gente si arrabbi, vuol dire che tengono veramente a quello che stanno facendo. Poi, si percepisce chi lo fa veramente per smuovere le acque e chi ha questa sciocca ambizione di poter lucrare.
Una delle figure che reputo seminali è stata quella di Alexander Dorner; le sue teorie creano il museo come centrale elettrica, scardinando l’obsoleta funzione del museo, arrivando a una mostra che si auto-generi in costante divenire. È stato un tuo mentore? Quali sono state le figure curatoriali che ti hanno formato?
È sempre tosto parlare di mentore o di figure che stimiamo senza cadere nella banalità. Ma se devo risponderti, devo darti i nomi di due miei compatrioti Szeemann e Obrist. Non credo che il loro modo di fare si allontani molto da quello che teorizzava Dorner. Credo che purtroppo si sia persa la visione che potevano avere e che si può sentire nei loro testi. Facevano perché toccava farlo, perché era necessario rappresentare anche i cambiamenti epocali della società. Questa cosa si può tramandare solo coinvolgendo vari attori, lasciandoli liberi di presentare una loro interpretazione, tramite un gesto artistico.
Forse si è perso questo azionismo artistico, non parlo di performance, ma di idea e di senso di responsabilità. Le cose si devono fare perché tutto permette di ampliare la narrazione del presente, poi il presente è fluido, quindi si devono adattare le certezze. Avere certezze è buono, ma queste certezze non possono esistere senza i dubbi che le sorreggono. Credo che queste figure della storia dell’arte siano riuscite, con passione e intelligenza, a sottolineare questa fragilità del presente, apprendo nuove alternative sulle quali indagare. Citarli copiando quello che è stato fatto è una cosa orrenda e non è dargli un giusto merito. Quello che conta è l’intento, la loro azione o le loro mostre ne sono solo la rappresentazione.
Questo contenuto è stato realizzato da Camilla Boemio per Forme Uniche.
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