Eden di Pietro Guglielmin è la prima mostra del nuovo ciclo espositivo nella Chiesa di Santa Marta di Magnano (Biella) curato da Michela Pomaro e Giovanni Frangi. L’esposizione, a cura di Luca Zuccala, dura sino al 6 agosto. Di seguito il suo testo critico a catalogo: Le mille foglie blu.
Le mille foglie blu non sono bolle, non scoppiano, ma restano sospese in aria dondolando nella melassa del cielo che forse cielo non è, in quella sorta di pigmento a vapore dove scorrono in sogno l’olio e il velluto. Gliel’ho detto a Pietro che, seppur prova a tenerle in griglie di smalto, briglie di ruggine, dal sapore antico, sporco, del tempo, molto italiano, quelle nuvole di foglie sono linfa libera, una nube di farfalle che danzano. Senza riverberi di metallo per le ali, ma con uno spolvero intelligente di pastello o matita, alcune volte di entrambe. E anche questo profuma di antico, di tempo. E di scultura. Superbi i pittori anglosassoni che Pietro divora nella prospettiva schiacciata e nella composizione piana, ma lui fa Guglielmin di cognome, che come mi ricorda uno dei suoi numi, Giovanni (Frangi), nel rettangolo di carta rossa Non si muove una foglia, è veneto. Di Bassano del Grappa c’è scritto sul catalogo della mostra tenutasi a Milano qualche mese fa. Quindi diamo allo spartito vegetale fluttuante quel che è di natura carezza: un volume, un tocco, di vezzo. Piano piano. E scaldiamo le frange delle grate, che alla fine son loro la siepe, di foglia d’oro e argento e magenta e croste da risaltarne la fattura, la materia che tanto viene da pensare più che a una logora griglia di ferrame da esterno a un granito rosa rosso, magari venato, di qualche pala quattrocentesca, magari di Crivelli, insomma di sacralità di troni o scale reali o clericali, assai lontane, rese con l’artificio del marmo dipinto. Le mille foglie blu raccontano parecchio della dimensione di Pietro: l’ironia matura, non retorica, di sacralizzare banalmente il titolo di un’opera o di una serie (confine, limite, liminale, che noia, c’è già tutto nelle foglie blu che sono migliaia, simbolicamente, un muro, una soglia, ipotetiche prospettive e celate profondità prospettiche); la consapevolezza di esser giunto a un destino coerente: prendi i primi monotipi con cane, li fai, rifai, ci provi, ti stufi, li copri, alzi una siepe, fitta, dura, poi morbida, alleggerisci il tutto, lasci andare, vaghi, divaghi, togli un cancello, metti un cancelletto, rimetti una grata, ordine grammatica geometria il quadro si fa da sé, il gioco è fatto. La trama è data. Più o meno penso sia andata così. Terzo, c’è poesia: il dondolio blu, che poi rivedremo più avanti, di una dialettica danzante. Da quadro a quadro, come prosieguo di un polittico. Qua sorge spontaneo il continuum, l’infinito (torna facile spesso il Leopardi della siepe, ma siamo più sul “sol di lei m’appago” delle Memorie del primo amore), il batter pennello. Mi ricorda sempre Giovanni di riflesso a catalogo: “ogni artista ha un chiodo fisso”, gesto e ripetizione, e forse coazione a ripetere. C’è poi la foglia che non ha forma, la matrice prima da cui tutto è; ci sono Rosoni e Formelle, ma anche Banane e Fortunati. C’è, spesso, un reticolato più che una recinzione che si costruisce come muqarnas e mandala. Poi c’è il simbolo. Abbiamo detto poco fa “simbolicamente”, quella è la chiave del cancello, la metafora, ciò che evoca e rimanda, è cosa nota. La foglia è un volume, un colore, una luce, ombra su ombra, un appoggio di spessori, una passata di pennello. Saturo, denso, soffice. Si va oltre, ci si ferma, dà fastidio, è uno trino molteplice, si persevera su chi ci sia dietro, su cosa bolle nel cielo azzurro verde viola giallo senza tempo dopo, in quell’etere di fondo. Insomma, ci lascia guardare, vedo, non vedo, avvicinare, elaborare, annusare, capire, carpire, leggere, scavalcare, metterci mano, letteralmente, rimanere incastrati, lasciar perdere o ragionare una tela via l’altra. Come infinite costellazioni, vegetali sì, su toni smeraldo e tinte cobalto, ma anche e soprattutto astrali. Petali, tessere, stami, bolle, pale, ali. Lucide, fitte, musicali, a tratti cosmiche, molto solide a terra, alla siepe che scandisce le villette della Brianza, alla cancellata che ne ritaglia i confini sulle strade. In fondo sono quinte che appaiono sulla tela, con base e telaio una accanto all’altra, una dietro l’altra nello studio, parte di una grande scenografia. Di un teatro, sipari. Di una realtà che si compie, di giorno, di sera, di notte, all’ora dell’oro, a quella blu. Quando si accende la metamorfosi del mondo. Che va assecondata e ridonata, dedicata e delicata. Su un telo, telaio, telero magari. Dandole un ordine, interpretando la sinfonia data. C’è un equilibrio che dondola, come scrive Pietro sul retro del suo quadro Le mille foglie blu da dove abbiamo cominciato. “Le mille foglie blu. Mi sento dondolar”. E noi con lui, naufragando dolci nel pensiero, a ognuno la sua temperatura di colore nella quale annegare. A me, per quello che può importare, è balenata Campana Road, a Londra, da dove sono appena atterrato, e poco prima le rive del Reno, Minorca, l’Alsazia, i momenti in cui il blu ultimamente mi ha brillato di più.