La Fondazione Magnani Rocca espone 100 opere che indugiano sulla fase prefuturista di Umberto Boccioni, quasi ipotizzando si tratti effettivamente del punto massimo della sua espressione artistica. Dal 9 settembre al10 dicembre 2023, a Mamiano di Traversetolo, Parma.
É una tentazione umana, inevitabile: ci guardiamo indietro e rileggiamo la nostra storia con fatalismo deterministico, vediamo gli eventi della vita succedersi conseguenzialmente, tracciare una linea che ci ha portato da un punto a un altro, da quello a un altro ancora. Dopotutto ha il suo senso, no? Per evolverci, crescere, un certo rapporto di causa-effetto dovrà pur esserci, l’impegno profuso dovrà condurre a qualche risultato. E anche quel che ci sembra accaduto casualmente, riguardandosi indietro ad un certo punto, alla fine sembra rientrare pienamente in un disegno del fato. Questa visione rischia però talvolta di risultare fin troppo consolatoria e forse banalizzante, almeno per tutti quegli aspetti che vengono ridotti a meri passaggi intermedi verso un qualcosa d’altro, forse più completo e riconosciuto.
Uscendo dalle generalizzazioni, tutto si fa più chiaro entrando nel campo specifico dell’arte e dei suoi interpreti. Nel loro caso, la tentazione di leggerne la carriera in virtù dell’approdo ultimo è pressoché irresistibile. Se da una parte, come visto, può essere legittimo, dall’altra appare interessante liberare i momenti artistici di un autore dalla prospettiva positivista che li interpreta come ausiliari. E quindi analizzarli nella loro autonomia, come fossero loro stessi gli esiti definitivi, ma anche come punti di snodo che, in una realtà alternativa, avrebbero potuto condurre altrove.
In questo esperimento consiste il merito maggiore della mostra Boccioni. Prima del futurismo, che alla Fondazione Magnani-Rocca attraverso 100 opere racconta del giovane Umberto Boccioni, quando il futurismo per lui non era nemmeno un’idea, attraverso tre città che l’hanno formato: Roma, Venezia e Milano. L’esposizione indugia dunque sugli esiti pittorici immediatamente precedenti l’elaborazione del Manifesto dei pittori futuristi nella primavera del 1910. Un decennio cruciale in cui Boccioni sperimenta tecniche e stili alla ricerca di un linguaggio originale.
Evidente, per esempio, l’avvicinamento deciso al divisionismo e in particolare a Giovanni Segantini. Il fenomeno artistico italiano (non fu mai movimento perché nessuno lo codificò mai in un manifesto), riconoscibile per la separazione dei colori in singoli punti o linee che interagiscono fra di loro in senso ottico, fu fondamentale per lo sviluppo poetico di Boccioni, alla ricerca di un linguaggio espressivo che fosse il meno didascalico possibile. Come d’altra parte aveva già indicato l’impressionismo, l’arte si stava indirizzando verso una rappresentazione non mimetica della realtà, la quale invece poteva essere interpretata anche secondo sensazione. Al cedere del naturalismo (che in ottica divisionista mantiene in ogni caso il suo spazio), il giovane Boccioni si avvia gradualmente verso una sintesi formale che, attraverso la pennellata, il colore e la luce, potesse restituire il senso immediato di un’emozione. Di seguito tre opere, una per periodo e città, esemplificative del percorso che l’artista ha compiuto.
In Campagna romana o Meriggio (1903), Boccioni rappresenta un bue immerso in un pascolo. Il tema è naturalistico, del tutto consueto. La sua interpretazione, invece, molto meno. Se sezionassimo quasi tutte le porzioni della vegetazione, per esempio, ci troveremmo di fronte a molteplici frammenti astratti. Quel che non complesso ci appariva come un chiaro campo coltivato è ora diventato un indistinto sovrapporsi di gambi, fiori, colori, segni, tracce, terra, fieno, sterpaglie, insetti e così via. Ma non è proprio questa, in fondo, la sensazione che abbiamo quando ci troviamo in campagna, immersi fino alle ginocchia nell’erba? L’animale, posto nell’angolo, funziona da ancora visiva, è il nostro punto d’accesso all’opera, ma il vero soggetto è la campagna esplosa nella sua confusa energia. L’orizzonte bassissimo – poco più di una linea, come poi sarà anche in seguito – schiaccia l’osservatore al suolo, lo costringe a immergersi nel fitto intrecciarsi della campagna quasi a volergli far appoggiare il naso contro la terra secca del meriggio. Se, come spesso accade alle opere più vivide, chiedessimo a Campagna romana o Meriggio di emettere un suono, esso sarebbe sicuramente il frinire delle cicale.
Tre anni dopo, nel periodo che trascorre tra Padova e Venezia, il pittore prova a ricreare un effetto analogo, cimentandosi questa volta con un’altra tipologia ambientale. Gennaio a Padova (1906) testimonia nuovamente alcune scelte drastiche di Boccioni, volte a sacrificare il mimetismo in favore di una più efficace manifestazione emotiva-sensoriale. L’orizzonte basso taglia le fronde degli alberi, di cui vediamo dunque solo il tronco agitato, nervoso come in un dipinto di Van Gogh. Sono loro a elencare i metri che compongono l’ampiezza del campo macchiato di blu. É il freddo che gela la terra, la rende dura come il marmo, e del marmo assume anche le sfumature inaspettate, le venature nere, l’anima gelida. Il cielo è una sottile lastra di ghiaccio. Spezzandosi, le sue schegge si conficcherebbero tra le crepe del terreno, compattatosi in blocchi separati come a stringersi, a proteggersi dal freddo. Ogni cosa è ricoperta da uno strato di ghiaccio leggero come la polvere.
Due anni dopo, a Milano, Boccioni giunge al culmine della sua esperienza prefuturista, che è dunque anche il punto d’arrivo della mostra. In un universo parallelo dove non esistono Parigi e il cubismo, dove l’artista non entra in contatto con Marinetti e non firma il Manifesto tecnico del movimento futurista (1910), Il romanzo di una cucitrice (1908) sarebbe rimasto probabilmente il suo capolavoro. La giovane operaia in vestaglia, seduta alla macchina da cucire vicino a una luminosa finestra, raccoglie in sé un’infinità di colori, vibrati in una nervosa danza di linee parallele e incrociate, dove domina su tutti una gradazione blu-violacea. Nonostante il titolo parli di romanzo, qui assistiamo più a un riassunto di un momento, alla sintesi dell’istante di raccoglimento e sospensione che la donna sta vivendo. L’orizzonte basso (di nuovo) ci chiude nella stanza, addirittura i fiori sul davanzale schermano l’esterno. Tutto qui è però intimamente scosso, le forme sono in fibrillazione, agitate dalla pennellata avvolgente e dai giochi di luce ed ombra. Così facendo, un soggetto molto comune, a tratti anche banale, si accende di un senso poetico crepuscolare, romantico, tipico di quegli istanti d’estasi, di distacco dal mondo, di cui ci si accorge solo mentre stanno scomparendo.