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Intervista a Davide Sgambaro. Sintetizzando, parte 2

“FENOMENO (Smiley)”, 2022, installazione, laser verde, controller laser, computer, dimensioni ambientali, installation view Manifattura Tabacchi, Firenze, ph. Leonardo Morfini, ADRYA, courtesy the artist and NAM – Not A Museum, Firenze
“Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”, 2016, skydancer rosso, dimensioni ambientali, installation view Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia

Intervista a Davide Sgambaro. Sintetizzando, parte 1

Ricordo un’altra sensazione, che le tue opere siano tendenzialmente delimitate nello spazio. Nella prima parte di intervista abbiamo parlato di come tu lavori sul vuoto/pieno, luce/ombra e mi chiedevo il tuo rapporto con aperto/chiuso.

Penso che considerare lo spazio sia una forma di cura nei confronti del pubblico, ed è anche un approccio divertente, credo poi sia da ricercare nelle tematiche che affronto e nella metodologia sviluppata nel tempo. Per esempio, il pupazzo gonfiabile è incastrato lì dentro volontariamente e lo spazio stesso diviene a sua volta uno dei materiali del lavoro, la dimensione dei muri è una componente necessaria. Il più delle volte utilizzo lo spazio anche come espediente che mi restituisca una narrazione specifica: se il pupazzo non fosse chiuso nello spazio e non giocasse con la sua architettura non potrebbe seguire il suo corso, rimanendo un mero readymade. D’altro canto invece lo spazio ha sempre un suo contesto specifico, altro dettaglio al quale prestare attenzione, credo sia un esercizio intelligente avere questa tipologia di cura quando si va ad allestire o proporre un lavoro.

Menzionerei anche il movimento: non è solo il delimitare uno spazio, ma anche circoscrivere le possibilità d’azione all’interno dello stesso. Penso non solo a Non dormire, ma anche a I push a finger into my eyes (kiss, kick, kiss), Parappaparaparapappapara o Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno.

Penso che questo aspetto abbia diverse nature e sicuramente proviene da una sorta di divertimento nel relazionarmi con il limite, i perimetri e le aree. Ad esempio adoro lavorare nel white-cube, perché è una superficie bianca su cui disegnare. È meraviglioso avere una stanza vuota e passarci del tempo all’interno per visualizzare i diversi interventi. Sono scatole, display vuoti da scrivere, da piegare e anche da gettare e dimenticare. Poi questo esercizio aiuta a entrare in confidenza con il lavoro, perché gran parte delle mie opere non prevedono un controllo totale e a volte mi mettono a dura prova nel loro allestimento, è una condizione mentale. Quando finisco un allestimento non so cosa succederà in quanto l’opera reagisce agli spazi e al contesto ospitante. Fai conto che le sculture di petardi, chiamiamole così, sono dei lavori ridimensionati perché nascono come uno spettacolo pirotecnico dentro a uno spazio museale, dove le persone non possono vedere lo spettacolo vero e proprio ma fruiranno solamente ciò che rimane, la traccia. Per questioni tecniche ho dovuto ridimensionare tutto, quindi le varie teche fungono da contenitore, ma l’idea nasce dalla necessità di ricontestualizzare all’interno di un luogo sacralizzato, museale, un qualcosa che va a turbare la pittura murale bianca stessa, creando una sorta di pittura astratta  attraverso le bruciature dei fuochi d’artificio. Ad ora nessuno me l’ha mai lasciato fare, sono riuscito a realizzare solo una versione controllata con dei miniciccioli tra muro e pavimento, Fischia e verrò da te. Un altro esempio è il gonfiabile, è un discorso abbastanza banale, però era perfetto perché si dimenava in maniera abbastanza violenta dentro uno spazio che non gli permetteva di essere totalmente eretto – mi interessava molto anche la relazione tra inclinazione ed erezione, due parole che in relazione con la dialettica patriarcale mutano i loro significati – ma si dimenava sorridendo e questa è un’altra cosa utile per rievocare esattamente la morbosità interiore dell’individuo contemporaneo. Nonostante tutte queste informazioni l’opera si manifesta in un oggetto semplice in una stanza semivuota che lo rende quasi monocromo. Questa cosa mi ha sempre fatto sentire bene, la potenza della semplicità nel riordinare, ridimensionare, girare, ruotare, capovolgere le cose e, perché no, anche ometterle.

“FENOMENO (Smiley)”, 2022, installazione, laser verde, controller laser, computer, dimensioni ambientali, installation view Manifattura Tabacchi, Firenze, ph. Leonardo Morfini, ADRYA, courtesy the artist and NAM – Not A Museum, Firenze

Come con il pannello Fenomeno. Dove si suppone che tu ci metti la faccia per fare il sorriso.

Sì, esatto. FENOMENO (the wall) è un lavoro fatto con il cartongesso delle pareti del mio studio nel contesto della residenza Superblast a Manifattura Tabacchi a Firenze, in realtà questo lavoro è una sorta di appunto che ha contribuito alla creazione di FENOMENO (Smiley). In questo caso però lo spazio l’ho scomposto. Questo lavoro nasce dalla teoria niceness, un comportamento (ormai abitudine), che tende a compiacere chiunque al fine di creare opportunità per se stessi.

 

Già, lo capisco bene, io ho il “problema” di essere spesso troppo diretta, e spesso risulta poco compiacente. Comunque in questo senso sì, Fenomeno è più esplicito.

Sarà la scritta, che nell’immaginario è abbastanza semplice: un cartonato dove infili la testa, la questione è didascalica.

 

“FENOMENO (the wall)”, 2022, installazione, 4 pannelli di cartongesso, vernice spray nera, 460x250x25cm, installation view Manifattura Tabacchi, Firenze, ph. Leonardo Morfini, ADRYA, courtesy the artist and NAM – Not A Museum, Firenze

Parliamo del rapporto titolo/opera, mi chiedo se i titoli possano essere uno dei primi riferimenti per interpretare il lavoro, un suggerimento di lettura.

Io con i titoli mi diverto molto, quelli che funzionano meglio sono arrivati così, semplicemente dal nulla. Spesso sono suggestioni che arrivano da spunti teorici, ma anche da testi musicali o da sceneggiature, raramente sono di  mia invenzione. FENOMENO per esempio è nato da una  casetta per bambini sul tetto della quale qualcuno aveva disegnato un pene gigante. Sopra questo pene, a distanza di qualche giorno, è stato scritto “FENOMENO”. Poi ovviamente la mia attenzione va su cosa potrebbe portare un aiuto nella comprensione del lavoro, o comunque creare un’ambientazione interiore, per esempio il titolo Hey, there you looking for a brighter season (moth) mi suonava quasi come fosse l’inizio di una lettera indirizzata allo spettatore, un percorso verbale che poi una falena (che compare nel sottotitolo) avrebbe reso percorribile. Purtroppo i titoli sono spesso ignorati. Io invece trovo che il titolo sia addirittura parte del lavoro. Che poi non so se ho risposto alla domanda.

Ehm…Qual era la domanda?


Davide Sgambaro (Padova, 1989)  ha studiato all’Università IUAV di Venezia, vive e lavora a Torino. La sua pratica ripristina irriverenti dinamiche di resistenza in risposta ai paradossi generazionali all’interno dell’ordine sociale.  Ha esposto in mostre personali e collettive, e partecipato a residenze, collaborazioni in Italia e all’estero tra cui Fondazione Bevilacqua La Masa, Fondazione Spinola Banna per l’Arte, Quadriennale di Roma, Castello di Rivoli, Galerie Alberta Pane, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Cantica 21, con il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero degli Affari Esteri, NAM Manifattura Tabacchi, Nuovo Forno del Pane, Museo MAMbo, Klemm’s Gallery, Istituto Italiano di Cultura di Colonia, Musei Civici di Spoleto. Ha ricevuto il premio della Pollock-Krasner Foundation di New York (2023-2024).

davidesgambarostudio.com

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