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Simboli e oggetti. Come sarà la mostra sulla Pop Art al Guggenheim Bilbao

Roy Lichtenstein New York, 1923–97 Grrrrrrrrrrr!!, 1965 Olio e Magna su tela 172,7 × 142,6 cm Solomon R. Guggenheim Museum, New York, donazione dell’artista 97.4565 Fotografia: Midge Wattles, Solomon R. Guggenheim Museum, New York. © Roy Lichtenstein © Solomon R. Guggenheim Museum, New York
Roy Lichtenstein, New York, 1923–97, Grrrrrrrrrrr!!, 1965. Olio e Magna su tela, 172,7 × 142,6 cm. Solomon R. Guggenheim Museum, New York, donazione dell’artista 97.4565. Fotografia: Midge Wattles, Solomon R. Guggenheim Museum, New York.
© Roy Lichtenstein © Solomon R. Guggenheim Museum, New York

40 opere raccontano la storia della Pop Art al Guggenheim Bilbao, che cita una mostra tenutasi al Guggenheim di New York nel ’63. I protagonisti sono sempre loro, da Warhol a Rauschenberg. Dal 16 febbraio al 15 settembre 2024.

Con la sua ironia dissacrante, facilmente comprensibile, per alcuni troppo, il destino della Pop Art era segnato dal principio: l’immediato successo o l’immediato declino. Nata negli anni ’50 in Inghilterra, in pochi anni era già passata dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, dove si è consacrata. É qui che il curatore Lawrence Alloway, che ne aveva coniato il nome nel 1958, organizzò la mostra che la legittimizzò a livello istituzionale: Six Painters and the Object, esposta nel 1963 al Guggenheim di New York. L’immediato successo, dunque. E anche longevo. Sessant’anni dopo un altro Guggenheim, quello di Bilbao, porta avanti la storia espositiva del movimento, dedicandogli una mostra che porta il titolo che inizialmente Alloway avrebbe voluto dare alla mostra del ’63: Signs and Objects.

Per esteso Simboli e Oggetti. Pop Art della Collezione Guggenheim si compone di 40 opere chiave degli autori più rappresentativi della Pop Art, a cui si aggiunge una selezione di proposte contemporanee che ampliano la visione sull’eredità del movimento. In mostra dunque i grandi artisti del secondo dopoguerra, come Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, James Rosenquist e Andy Warhol. Autori che hanno esplorato il linguaggio visivo della cultura popolare – da cui il movimento prende appunto il nome – ispirandosi a pubblicità, riviste economiche, giornali, cartelloni pubblicitari, film, fumetti e vetrine. Un approccio apparentemente superficiale che con la sua freddezza e l’aspetto impersonale ha rappresentato un attacco diretto alle tradizioni dell’“arte elevata”.

Di questo si occupa la prima sezione della mostra, Simboli, che racconta di come gli artisti pop hanno incluso nella sfera artistica elementi considerati volgari. Si trattava sostanzialmente di adottare le forme espressive popolari annullando le distanze tra cultura bassa e alta. Tra loro c’era Richard Hamilton, a cui viene spesso attribuita la fondazione della Pop Art. In particolare il concetto di ripetizione, che compare già nella serie di rilievi in vetroresina del Guggenheim Museum di New York, ispirati a una cartolina dell’edificio. Sulla ripetizione, ovviamente, ha costruito la sua arte anche Andy Warhol, che utilizzava come soggetto immagini stampate recuperate da giornali, fotogrammi pubblicitari e annunci e li riproduceva con la serigrafia.

Roy Lichtenstein, invece, dipingeva le sue tele simulando i punti della griglia di stampa, prendendo come riferimento le tecniche commerciali utilizzate nei fumetti e nei giornali. Proseguendo la sua carriera di autore di cartelloni pubblicitari, James Rosenquist introduce invece nella sua pratica artistica numerose tecniche e motivi provenienti dall’industria dei grandi annunci pubblicitari. Alle insegne luminose si ispirò invece l’artista di origine greca Chryssa, mentre Josephine Meckseper combina elementi artistici con oggetti di consumo in sculture che spesso assumono la forma di vetrine commerciali.

Proprio questo aspetto materiale, introduce alla seconda sezione, Oggetti, che denota l’ispirazione che la Pop Art deve “alla rete di comunicazioni e all’ambiente fisico della città”, come scriveva Alloway. Da qui gli assemblaggi e i dipinti di Robert Rauschenberg, che includevano oggetti e materiali trovati come cartone, plastica e rottami, nonché immagini comuni rese attraverso tecniche di trasferimento o processi di serigrafia commerciale.

Jim Dine e Claes Oldenburg fanno invece parte di un gruppo di artisti che trasferiscono le implicazioni gestuali e soggettive della pittura dell’Espressionismo astratto in performance. Questi eventi, che combinavano danza, arti visive, musica e poesia, potevano essere finte cene, cerimonie stravaganti o vetrine fittizie in cui si offrivano oggetti assurdi, e criticavano la devozione della società al consumo di massa. In seguito, Oldenburg inizia a creare sculture e progetti di grandi dimensioni in collaborazione con Coosje van Bruggen, che sposa nel 1977. Una di queste, Volano molle (Soft Shuttlecock, 1995), è in mostra, con le sue smisurate dimensioni che sembrano rimpicciolire in maniera umoristica lo spazio del museo.

Uno spazio è poi dedicato agli artisti che hanno operato al di fuori della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, come il tedesco Sigmar Polke, l’italiano Mimmo Rotella, la francese Niki de Saint Phalle o il colombiano Miguel Ángel Cárdenas. Tutti loro, pur non facendo direttamente riferimento alla Pop Art, ne assumono l’assunto principale – mettere in discussione le convenzioni estetiche e le differenze tra cultura alta e bassa – interpetandola nella chiave del Nouveau Réalisme.

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