Ogni tanto il parrucchiere del negozio di fronte sta sulla soglia a osservarlo. Non conosce Roberto Fanari (Cagliari, 1984; vive e lavora a Milano) e non sa perché sia in balcone a saldare e modellare, con ogni condizione atmosferica, fili di ferro cotto, cui dà vita realizzando grandi sculture. Ho la fortuna, dato il tempo gelido, di essere accolta al caldo della sua stanza, dove mi mostra una nuova serie di soldatini, per ora in argilla. Sono in attesa di una colata di piombo, che completerà il lavoro. «Devo ancora trovare il necessario. A Milano è un problema, perché non riesco a reperire niente, sembra paradossale, mentre in Sardegna… forse perché qui c’è troppo, perché non conosco i posti e se entro in un negozio per chiedere un tubo, come minimo devo comprarne un quintale. Andrò in un ferrovecchio a recuperare il piombo delle tubature di scarto».
Sono opere di dimensioni decisamente inferiori rispetto al passato, in cui realizzavi sculture a grandezza naturale, che spesso rappresentavano dei bambini. «Adesso voglio fare una serie di lavori piccoli. Ho avuto la spinta da una bambolina che ho esposto durante “All I Desire”, a Milano. Prima avevo un po’ di timore, perché ho sempre creato opere piuttosto grandi e ormai mi ero abituato».
Solitamente accade il contrario. Tanti artisti, soprattutto giovani, hanno la difficoltà di dominare lo spazio, di riempirlo.
«I mie primi lavori sono sempre stati di grandi dimensioni. Arrivavano, senza problemi, a quasi due metri di altezza. Ora ho anche un problema logistico di conservazione delle opere, che devono stare in ambienti adatti, perché, essendo di ferro, il rischio ruggine è sempre in agguato, pur essendo state trattate. Devo dire, però, che l’effetto arrugginito su una bambina che ho esposto per tre giorni sotto la pioggia ad Arte Accessibile Milano mi è piaciuto. Nonostante l’ombrello, ora vira sul rosso».
Non diciamo, però, che è solo una questione di ingombro.
«No, assolutamente. C’è una grande differenza tra fare una persona a grandezza naturale e gli omini di trenta centimetri. Ora mi attira questo».
Anche i soggetti saranno diversi?
«No, li concepisco nello stesso modo. Mi incuriosiscono quanto i bambini. Ogni oggetto mi colpisce per una determinata ragione, per qualche particolare, per la posa. Sono degli spunti da cui traggo l’idea che mi conduce a realizzare un’opera. A volte prendo ispirazione da immagini, da fotografie che mi catturano e che conservo. Trasferisco, poi, la mia idea su carta, in un disegno, che mi serve anche per rispettare le proporzioni».
Probabilmente non li consideri in modo diverso anche perché valorizzi molto l’idea del contesto: non ti interessano tanto i personaggi, quanto i rimandi che innescano nell’osservatore e la loro relazione con lo spazio.
«Mi piace che ognuno abbia la possibilità di immaginarli nel suo ambiente. Io so da dove le ho estrapolate, ma l’osservatore, che non ha i miei stessi riferimenti, dove immagina le sculture? Le reazioni davanti alla serie dei bambini sono, ad esempio, estremamente diversificate. Alcuni ne hanno addirittura paura: recentemente una signora mi ha chiesto di allontanarli, perché le pareva fossero dei fantasmi».
Una componente importante per il tuo lavoro è rappresentata dal materiale e dalla volontà di sperimentare. Bilanci, in qualche modo, il richiamo alla tradizione che emerge dalle sculture.
«Sento l’esigenza di mettermi alla prova, con materiali che non avevo usato prima. L’anno scorso, ad esempio, ho iniziato una serie realizzata con un’argilla che cuoce da sola. Quando comincio un lavoro, voglio continuare e da ognuno si origina l’idea per il successivo, magari con una tecnica diversa. Anche le resine e le plastiche mi interessano, soprattutto in relazione ad alcuni fregi in bassorilievo, quasi decorativi, che sto progettando. Ho tante idee, il problema è rappresentato dal fatto che impiego parecchio tempo a realizzarle. Mi piace non fare molte sculture. Dopo aver lavorato tanti giorni di seguito, amo girare per la città, guardarmi intorno e dopo due settimane, tre, un mese ricominciare».
A prescindere dal materiale, in tutti i tuoi lavori pare esserci una ricerca di equilibrio attraverso il bilanciamento di pieni e di vuoti. La struttura ti permette di vedere l’interno, abolisci l’idea del confine.
«Trasferisco in tre dimensioni la volontà di leggerezza e di equilibrio. Ė come se usassi dei colori, che accosto per avere un’armonia. Presento un contrasto tra l’apparenza e la sostanza, perché, anche se i lavori appaiono leggeri, sono in realtà molto pesanti. I bambini sono realizzati, infatti, in ferro cotto, un materiale usato in edilizia per fare le strutture portanti. Lo preferisco al ferro acciaioso, perché è più malleabile, tiene le curve».
Come hai cominciato?
«Ho fatto l’istituto d’arte, mi piaceva il tuttotondo, mi trovavo bene con il modellato e con l’argilla. Poi mi sono iscritto all’Accademia di belle Arti di Sassari, a scultura. Tutte le opere che eseguivo in accademia, come esercizio, avevano un’anima in ferro. Più il risultato doveva essere grande, più l’interno doveva essere dettagliato. Dovendo realizzare un modellato di grandi dimensioni, ho deciso di presentare solo la struttura, nuda. All’inizio era solo segno, come un disegno. Poi ho fatto un ritratto e volevo dare qualche dettaglio in più, quindi ho iniziato a riempire con il filo di ferro più sottile e a cucire».
Attraverso il metallo riesci a rendere particolari accurati, a caratterizzare i personaggi attraverso espressioni e accessori. Usi il ferro come se fosse una matita.
«Costruisco la struttura, poi, quando verifico che sia corretta dal punto di vista anatomico, intervengo con il filo sottile per donare luce e ombra, per fare emergere lentamente i dettagli, prima gli occhi, poi le labbra, poi il naso. L’aspetto migliore è che non rompo mai nulla. Il ferro è l’ideale per me, perché è resistente e può cadere, mentre io distruggo qualsiasi cosa. Sono molto attento anche all’abbigliamento. Alzo i calzettoni, come i bimbi del primo Novecento, aggiungo scarpe come quelle che indossavo io. Nonostante ciò, non personifico i bambini, ad eccezione del primo che ho realizzato come ritratto del mio figlioccio».
Non attribuisci loro una identità precisa, ma ce n’è qualcuno a cui sei particolarmente legato?
«I bambini, anche per dimensione, costituiscono senza dubbio l’aspetto più evidente del mio lavoro. Nonostante ciò, in questo periodo, sono più coinvolto da una serie di trofei che ho realizzato. Per essi c’è stata una ricerca nuova e impegnativa. L’ultimo rappresentava il mio cane, un pastore tedesco; un altro era un caprone che avevo visto a casa di amici, che me l’hanno prestato per fotografarlo e misurarlo».
Con l’arrivo a Milano è cambiato qualcosa nel tuo lavoro?
«Sì, ho maggiori stimoli. Ho sempre lavorato lontano da casa, dove tornavo con un piede o una gamba da cucire. I miei genitori non hanno visto quello che facevo fino al giorno della laurea. Avevo pensato di preparare il mio pubblico di persone di ferro per la discussione della tesi. Alla fine erano solo in tre».
Pochi ma buoni.
Galleria Immagini: