«La mia vita? Spesa per l’arte contemporanea»
Non è semplice essere direttore di un museo quando proprio quel museo finisce nell’occhio del ciclone. Il direttore in questione – anzi la direttrice – è Anna Mattirolo. Il museo? Quello delle arti del ventunesimo secolo: il Maxxi di Roma. Fin dall’inaugurazione del centro d’arte contemporanea, firmato da Zaha Hadid, la Mattirolo ha retto le redini del Maxxi Arte – sezione del centro che insieme al Maxxi Architettura, cui direttrice è Margherita Guccione, si occupa dell’attività espositiva – adoperandosi per la gestione, la scelta e l’organizzazione delle mostre che sono andate in scena, dal 2009 a oggi, in via Guido Reni.
Donna minuta, ma di presenza. Elegante e comunque sobria. Attenta, ma mai invadente. Una donna di sostanza più che d’apparenza. Legata forse a un’educazione di cui, in molti casi, si ha solo il flebile ricordo. Lavoratrice instancabile e madre di due figli adolescenti. Ha dedicato la sua vita lavorativa all’arte fin da quando, ragazza, decise di iscriversi all’università di Torino in Lettere, laureandosi, poi, nel 1979, con una tesi in storia e critica d’arte contemporanea. Non si preoccupa della “bagarre” che ha investito il museo negli ultimi mesi, crede nel potere dell’arte contemporanea e cioè quello di incentivare la crescita culturale del paese, lavora per questo. E lo fa con molto “senso pratico”. Te ne accorgi subito di quanto le “chiacchiere”, per la Mattirolo, siano solo brusii lontani al confronto delle azioni vere e dell’impegno concreto.
C’era nei giorni “bui”, quelli nei quali la credibilità del museo sembrava destinata a implodere, c’era anche quando la commissaria nominata dal Mibac, Antonia Pasqua Recchia, prendeva il posto di presidente della fondazione Maxxi, un tempo di Pio Baldi. C’era alla nomina del nuovo numero uno, Giovanna Melandri e c’è oggi, convinta più che mai di quanto l’arte contemporanea, anche in una città “tradizionale” come Roma, possa rappresentare quel carattere aggiunto per il benessere del paese. E ti spiega tutto, in una mattina d’autunno inoltrato che ha, ormai, il sapore dell’inverno. Mani pulite che gesticolano e accompagnano le parole, occhi attenti e mente disponibile, anche alle provocazioni.
Mattirolo, lei è la direttrice del Maxxi Arte. Com’è arrivata a ricoprire questo incarico?
«Il mio percorso è tutto all’interno del Mibac, il ministero dei Beni e delle attività culturali. Il mio lavoro sul Maxxi nasce nel 1998 quando, all’interno della Gnam (la Galleria nazionale d’arte moderna ndr.), dove lavoravo, prendeva avvio il concorso internazione di progettazione per il museo di via Guido Reni. Partecipai al brifing culturale per il Maxxi e sempre come Gnam, nel 2000, organizzammo il primo premio per la giovane arte italiana che ebbe luogo in una delle sale dell’edificio precedente alla realizzazione del Maxxi. Quello fu il nucleo iniziale delle opere che entrarono, poi, nella collezione del museo del XXI secolo. Dopodiché fu fondato la Darc (Direzione generale per l’architettura e l’arte contemporanee), sempre all’interno del Mibac, lì arrivai come direttore del servizio arte contemporanea e, proprio alla Darc, fu affidato il progetto del Maxxi, per cui eccomi qui».
Il Maxxi è, allora, un po’ come un figlio per lei?
«Non scherziamo! Di figli, per fortuna, ne ho due veri però, certo, è stato il progetto della mia vita».
Il museo è stato vittima di un grave momento. Prima il commissariamento poi la nomina, “mal digerita” da molti, di Giovanna Melandri a presidente della fondazione…
«Siamo stati catapultati in poco tempo dentro una crisi feroce che ha investito tutta l’Italia e molti altri paesi, non solo dal punto di vista culturale. Il Maxxi è una delle tante strutture che ha pagato caro questo momento».
C’è, secondo lei, una responsabilità imputabile a qualcuno a livello italiano per quello che è accaduto al museo?
«Non saprei dire se la responsabilità sia attribuibile al Mibac oppure no, quello che è certo è il fatto che la crisi economica globale si è sovrapposta a un indubbio affaticamento economico della cultura, la quale – purtroppo – non è considerata come proficuo volano di benessere e crescita economica. Abbiamo la possibilità, in questo frangente di riequilibrare le visuali, le prospettive. Il vero pericolo, piuttosto, è quello di affannarsi a correre ai ripari basandosi sui vecchi metodi di ricerca di consensi a 360° a scapito di scelte critiche serie e culturalmente valide, avviandosi su una progettualità di immediata comunicatività, a danno di una programmazione culturale a medio/lungo termine. Per quello che riguarda il Maxxi sono convinta che questo sia il momento per concentrarci sul consolidamento della struttura per avviarci finalmente ad una programmazione che definisca il “carattere” che questo luogo deve maturare per dialogare con assoluta originalità con il resto del mondo. Basi solide, dunque, per conquistare un ruolo decisivo in molti ambiti della ricerca contemporanea: abbiamo ottimi artisti e una intera nuova generazione di studiosi, curatori e critici che aspettano l’occasione per esprimere tutta la loro potenzialità. Ci vuole solo un po’ di coraggio, molta professionalità per guardare finalmente in avanti con determinazione».
Dopo undici anni di attesa, molte aspettative, cresciute con il tempo, e i primi anni d’attività, capaci di dimostrare la qualità del progetto Maxxi, via, via si è assottigliato l’interesse verso il museo. È così?
«Sembra che parliamo di un decennio, in realtà da quando il Maxxi ha aperto parliamo di poco più di due anni. È un tempo troppo breve per dichiararne il successo o l’insuccesso, e comunque fuori luogo determinarne una lettura complessiva. Qui si sta costruendo un Museo, dai depositi, ai servizi al pubblico, dalla didattica alla biblioteca, fino alla definizione di uno staff competitivo e preparato: le mostre non sono che la punta di un iceberg di un lavoro molto più profondo e sostanziale. E’ tutto questo che costituisce un museo. Noi abbiamo iniziato l’attività con una certa possibilità economica, per i primi dieci mesi questa disponibilità è stata sufficiente per costruire una “macchina” come quella del Maxxi. Poi l’assottigliamento dei fondi ha rallentato il nostro lavoro. Abbiamo sofferto. È naturale che siamo stati costretti a rimodulare i nostri “impegni”».
Beatrice Merz, in qualità di presidente Amaci, (l’Associazione dei musei d’arte contemporanea) ha scritto una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sollecitando l’attenzione delle istituzioni nei confronti dei centri che si occupano di arte contemporanea. Una lettera accorata nella quale si tratteggiava un disinteresse sia da parte degli enti territoriali e statali, che da parte del pubblico. Questo scenario sarà destinato a cambiare?
«Non riesco a immaginare come si possa pensare a una storia dell’arte che s’interrompa in qualche data. È ovvio che l’arte di oggi possa essere – a livello di comprensione – un argomento paradossalmente più complicato, nonostante ci appartenga più di ogni altra. Molto dipenderà da noi, da chi opera in questo settore, nel riuscire a essere credibili. Possiamo lavorare, e riuscire a farlo anche bene, nonostante la crisi, che non è solo economica ma più in generale sociale, civile e soprattutto etica. Penso che ogni centro per le arti contemporanee abbia avuto delle proprie ragioni fondative, che non possono essere spazzate via né cancellate dall’oggi al domani. Rintracciando ognuno la propria “missione” e il motivo reale per cui quel luogo sia stato creato per una certa collettività, credo si possa dar voce a un panorama nazionale straordinario e variegato, capace di dar spessore a un’offerta culturale di grande livello. Dobbiamo darci una sistematicità nel lavoro e anche le Amministrazioni devono naturalmente fare il loro, ma non posso che essere ottimista, perché nonostante tutto è un cammino tortuoso ma inarrestabile ».
Lei ha lavorato con Pio Baldi, al quale è stata attribuita la responsabilità del commissariamento, eppure la sua versione è completamente opposta a quella del Mibac. Non se ne esce…da qualche parte, però, dovrà esserci una sola e unica verità?
«La verità c’è e non sta a me raccontarla ora. Personalmente sono concentrata, com’è giusto che sia, sull’attività della sezione arte che dirigo. Le posso dire che alla base di tutto, comunque, c’era una mancanza di fondi sufficienti per far fronte alle spese di un museo di questo tipo. Nient’altro. Ora è tempo di pensare al Maxxi e non all’affaire Maxxi. Questo museo merita un budget dignitoso che gli permetta di lavorare con l’eccellenza di cui è assolutamente capace. Se continuiamo a guardare al passato non andiamo avanti…».
Mi svela qualche anticipazione sulle prossime iniziative espositive che intende realizzare?
«Al momento è tutto in definizione, non posso dirle molto, anche perché ancora non conosco l’entità del budget a me assegnato e quindi anche le mie idee, moltissime, sono in “attesa”. Al momento sono molto orgogliosa dell’installazione di William Kentridge. In futuro continuerò a lavorare come ho sempre fatto, cercando di rispondere a tre linee guida: grandi mostre, collezioni e le cosiddette “coincidenze”, cioè quello sguardo rivolto agli artisti “middle-career” capaci di sviluppare tutti quei temi che l’edificio stesso invita a creare, quale l’incrocio dei settori della contemporaneità, dal video, al musica, e così via…».
Però almeno un nome me lo potrebbe fare…
«Francesco Vezzoli, Lara Favaretto, un progetto su Alighero Boetti…».
Allora lo vede che qualcuno c’era?
«Le ho detto degli italiani che vorrei e per i quali sto lavorando da tempo poi ci sarà dell’altro naturalmente…».
Roma è una città abbastanza aperta al contemporaneo?
«Mi sento in difficoltà a paragonare Roma ad altre situazioni internazionali. Roma non è Londra, non è Parigi, nemmeno New York: Roma è Roma con una propria storia del tutto originale rispetto ad altre città. Evoca qualcosa di unico per quello che rappresenta e proprio per questo, credo che la città non possa interrompere la sua presenza nell’ambito culturale, la storia non si ferma. Per quanto viviamo in una metropoli sollecitata in ogni angolo dalla storia passata, deve continuare a far parlare di sé nel futuro. Attrarre per altro. Naturalmente la sua evoluzione legata all’arte non la fa essere una città contemporanea “tout-court”. Non ha una storia di collezionismo contemporaneo come Torino ad esempio, né come Milano per quanto riguarda il mercato. Sicuramente però è una capitale, e come tale merita di avere il proprio museo del contemporaneo e più l’offerta è ampia, penso agli altri luoghi della città, più le potenzialità si possono espandere anche per noi. Il Maxxi è una vetrina importantissima e su questo deve modulare la propria presenza e la propria offerta con progetti forti: il mio augurio è che il museo possa consacrare un’attività che rifletta in modo specifico e del tutto originale rispetto a modelli conosciuti, la storia del territorio che rappresenta ».
Si è parlato di un Museo Fendi all’interno dell’area Maxxi, è vero?
«Io non ne ho mai sentito parlare».
Davvero? La casa di moda non vuole trasferire qui i propri uffici e creare un piccolo centro espositivo?
«So che esiste un progetto, al vaglio del nuovo cda, per una struttura architettonica in project financing autonoma, seppur nell’area del Maxxi, dove Fendi avrà i suoi uffici, ma è tutto da vedere».
Cosa è arte per Anna Mattirolo?
«L’arte è creazione, è quello che mi emoziona, il prodotto della capacità di un artista di sollecitare un pensiero. Ci sono lavori che mi attraggono per ragioni estetiche, altre per un certo corto circuito che mettono in atto nella mia testa».
C’è un canale espressivo che preferisce?
«Non in assoluto; sicuramente alcuni artisti appagano in pieno il mio piacere, indipendentemente dalla tipologia dei mezzi con cui sono creati».
Lei si cimenta in qualche arte?
«No, godo della capacità degli altri».
Come riesce a coniugare l’impegno di madre e di direttore?
«Come tutti quelli che lavorano, niente di più e niente di meno».
Una mostra che ha curato e di cui va particolarmente fiera e una mostra, invece, che le fa dire: “peccato che non l’ho fatta io”?
«Ora ho meno possibilità di curare mostre e sono molto più concentrata a metter alla prova giovani curatori per i quali il Maxxi si spende molto. Comunque sono tantissime le mostre che avrei voluto fare. È difficile privilegiarne una o un’altra, ho lavorato molto bene con artisti giovanissimi, e ho imparato molto da quelli più maturi. La cosa straordinaria, comunque, è l’essere il tramite tra l’opera dell’artista e il pubblico, cercare di riuscire a essere una sorta di “trasfert” tra l’uno e gli altri ».
Bartolomeo Pietromarchi, con il quale lei ha lavorato proprio al Maxxi, è stato nominato curatore del prossimo Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2013. Crede che sarà difficile per lui sostenere il dopo-Sgarbi?
«Non vorrei banalizzare il lavoro di Pietromarchi, non me lo perdonerei, ma per superare quella mostra ci vuole poco, non credo che sia nemmeno il punto dal quale partire. Non mi è piaciuto quel padiglione, né il gioco poco onesto condotto tra curatore e intellettuali tutto a discapito dell’arte contemporanea. Un pregio, però, lo ha avuto: quel padiglione è servito finalmente a chiarire che il re (gli intellettuali) è nudo!».