Esplosivo alchimista del colore, attraverso il quale filtra il mondo della società dei consumi, Tiger Tateishi inaugura la nuova sede milanese della galleria Tommaso Calabro
Se Tiger Tateishi si calasse qualcosa prima di mettersi a dipingere non è dato saperlo, ma sinceramente – a cinquant’anni e passa dalla sua produzione italiana – poco importa visto che le tavole-pitture dell’artista giapponese restano, semplicemente, dirompenti. E chi si approccia per la prima volta a questo personaggio – come il sottoscritto – non può che essere bombardato da una serie di meteoriti rosa abitati da tigri che bevono Coca-Cola e dalle referenze dell’adolescenza del contemporaneo: la Pop Art.
Nato in Giappone nel 1941, Tiger arriva a Milano nel 1968 con la compagna Fumiko; lavora nello studio di Ettore Sottsass dal ’71 al ’74, espone con Alexander Iolas, frequenta la Galleria del Naviglio e Roberto Crippa, collabora come consulente artistico e illustratore per Alessi e Olivetti, firma varie copertine di Casabella, mette a punto splendide litografie (per Sottsass) e dipinge con uno stile che lui stesso perentoriamente iscrive in una dimensione brillante: “Non voglio essere un pittore, né un illustratore, né un fumettista. Ciò che voglio è un’incessante anarchia”.
Ed è seguendo quest’onda anarchica che durerà 13 anni – Tiger Tateishi tornerà in Giappone nel 1981 – che l’artista produrrà oltre cento opere che non trovano una definizione certa ma di cui vari “post-” potrebbero aprire chiavi di lettura: post-pop, post-moderne (nonostante l’epoca teorizzata da Lyotard si sia affacciata alla storia solo sul finire degli anni ’70), quasi new wave, certamente surreali e realizzate prendendo in prestito con leggerezza e raffinatezza i retini grafici a pois di Roy Lichtenstein, gli assemblaggi pittorici di James Rosenquist a rincorrersi in una dimensione onirica, ma anche gli scenari di Tom Wesselmann e Jim Dine che incontrano la forma dei fumetti, la cultura giapponese e la pittura europea (splendido l’omaggio-miniatura a Guernica di Pablo Picasso, di un collezionista privato), la Metafisica di De Chirico, i cartoni animati, l’immaginario manga, i prodotti di massa della cultura occidentale, i primati, gli alieni e le creature di ieri che ricordano il film Quando i dinosauri dominavano la terra, le autostrade dei Jetson, i corridoi di Solaris. Il tutto condito con molto, moltissimo colore, quasi che le nuance esplosive diventassero per Tiger l’elemento alchemico primario, l’oro distillato dal repertorio della società dei costumi.
Un omaggio che apre anche il nuovo percorso milanese della galleria Tommaso Calabro che, lasciato il grande appartamento di piazza San Sepolcro, apre le sue porte al 47 di Corso Italia, al piano terra della Casa Grondona, storica dimora progettata dall’architetto Enrico Terzaghi nella seconda metà dell’800. Per essere ancora più precisi, però, bisognerebbe parlare della mostra di Tiger come di un omaggio nell’omaggio visto che è ancora una volta la figura di Alexander Iolas che ispira la ricerca di Calabro: tra i più celebri galleristi del Novecento, Iolas fu tra i più importanti sostenitori del lavoro di Tiger, per il quale organizzò tre personali – nel 1972, 1975 e 1976 – rispettivamente nelle sedi delle sue gallerie di Ginevra, New York e Parigi. Un visionario che non poteva lasciarsi sfuggire un compagno di avventure capace di close-up che rivelavano lune dalla superficie di lattuga, altre a trasformarsi in biscotti, autoritraendosi con la testa circondata da nuvole e satelliti ferroviari, ricercatore spaziale di pianeti rossi come rose esplose, regalandoci gli arcobaleni della tradizione nipponica costellati, da un quadro all’altro, di quello che sembra proprio l’animale guida per eccellenza: la tigre, come scrivevamo poco sopra. Del Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio di Salvador Dalí Tiger ha raccolto il testimone del balzo felino, trasformando una tigre di carta nel ruggito di una pittura figlia di un’epoca mai tramontata.