Ti va parlarmi dei lavori che ho visto da Hub/Art a Barcellona? Ricordo che mi hanno divertita molto e mi chiedevo quale messaggio volessi comunicare.
Quella serie di lavori nasce diversi anni fa nell’ambito di un progetto più ampio intitolato People & things, una sorta di mantra con il fine di organizzare esposizioni che parlassero sempre di persone e di cose. L’idea era di fondo, oggi come allora, si ispira alla famosa frase “siamo quello che possediamo” e da lì è nato questo progetto, se vogliamo anche un po’ dadaista, di inserire oggetti e figure che possano creare una specie di rebus a libera interpretazione e che giochino sul significato semantico delle parole. Un soggetto è il Papa con una Big Bubble, Bolla papale, che può risultare un po’ dissacratoria, ma a me l’idea della di dissacrare il sacro è sempre piaciuta. In un altro pezzo c’è Stalin con l’orsacchiotto, dove si gioca con lo stereotipo dei comunisti che mangiano i bambini, o ancora Mussolini con i due palloni da calcio, a rappresentare gli attributi dei nostalgici del ventennio. È una serie di immagini, personaggi e oggetti che si richiamano a vicenda, e li ho realizzati con la speranza che incentivino un gioco di rimandi e riflessioni nelle menti delle persone, perché l’arte, per me, serve anche a questo: a riflettere, a conoscere, a incuriosirsi, insomma a generare degli stimoli che una volta a casa ti portino e dire “ma perché ha fatto quella cosa? Fammi andare a vedere i motivi che ci possono essere dietro.” Diventa quasi una sfida personale e, quando funziona, penso funzioni anche il lavoro stesso. La maggior parte sono figure politiche anche per porre l’accento su una questione per me importante, ovvero la mancanza di conoscenza delle giovani generazioni rispetto a cosa sia veramente la politica in sé. Le icone politiche si sono svuotate, rappresentano sicuramente ancora qualcosa, ma in un’accezione molto pop.
Non mi sono mai interrogata quanto l’icona svuoti di significato ciò che rappresenta. Credo possa svuotarsi di significato nel momento in cui il tempo la copre di polvere e viene poi decontestualizzata. Pensavo anche alle icone religiose, a cosa voglia dire oggi avere una Maria fuori contesto.
Ormai trovi l’immagine di Cristo o della Madonna tatuata sui bicipiti del tronista di turno. Quando diventa di dominio pubblico la percezione comincia a modificarsi e a deformarsi, e quindi diventa fondamentalmente un riferimento per lanciare uno slogan, fine. La società si è molto semplificata, si va avanti solo per slogan e immagini facili. Hai mai sentito parlare di infodemia?
Non credo.
Chiamiamola la “malattia” di oggi delle troppe informazioni: siamo subissati da migliaia di informazioni derivanti da qualsiasi tematica e tutta questa informazione, alla fine, è come non riceverla. Riceviamo notizie dappertutto, ma spesso il risultato è quello di non riceverle affatto, e infatti per questo ho iniziato un grosso lavoro su me stesso, sia a livello artistico che personale, di cercare di semplificare il più possibile la mia vita, eliminando il superfluo e tutte quelle sovrastrutture che mi porto dietro da un po’ di anni a questa parte.
E questo lavoro di semplificazione ti ha già portato a qualcosa nello specifico a livello di produzione, o su cui stai ragionando?
Nulla di concreto, ci sto lavorando.
Credi continuerai a lavorare con la Tape Art?
La semplificazione che sto utilizzando in maniera artistica non è tanto della singola immagine quanto della produzione che sto facendo. Sono sempre stato uno che appena vede un materiale, come il nastro adesivo, cerca subito di farlo suo e di farci qualcos’altro. Ho sperimentato con davvero tanti materiali anche di uso quotidiano, la parte principale della mia produzione è quella del dei mattoncini Lego con cui realizzo tutta una serie di rielaborazione di immagini, ma ora devo liberare la mente per dare spazio e potenzialità espressiva a nuove idee.
Come utilizzi i Lego?
I Lego risalgono ormai a una decina di anni fa, li usavo per rielaborare immagini analogiche come deformazione digitale, cercavo il modo di spixelare la realtà come fosse digitale, mantenendone le caratteristiche intrinseche come la tridimensionalità dell’immagine, che poi sembra quasi esplodere uscendo oltre il confine dello schermo televisivo diciamo, si allarga nello spazio del fruitore. Questa idea di spixelizzare l’immagine con l’utilizzo di un materiale plastico moderno fa proprio parte della mia della mia vita, mi è sempre appartenuto molto la necessità di scomporre immagini, tagliandole e ricomponendole.
È curioso, non ti percepisco con una persona così analitica che ha bisogno di scomporre e ricomporre come uno scienziato.
In realtà non lo sono, sono per l’entropia e per la casualità, per quello che capita. Le immagini che costruiscono sono scomposte e ricomposte su più livelli, che rimangono legati l’uno all’altro senza che vengano davvero percepiti. Il punto è il processo, io devo scomporre il soggetto nelle parti principali e poi devo cercare di rimetterlo insieme nella maniera più fedele possibile. Certe volte mi riesce, certe volte meno, ma ha poca importanza, perché ciò che mi piace è il procedimento, tutto ciò che sta in mezzo alla scomposizione, più che la scomposizione in sé.
Luigi Franchi, nome d’arte Zino, nasce a Teramo nel 1973. Si laurea in Storia dell’Arte all’Università di Bologna negli anni 90, dopo la laurea si trasferisce a Roma dove inizia a collaborare con alcuni artisti dell’ex pastificio e dove nasce il suo amore per l’arte contemporanea.
Dopo aver collaborato alla realizzazione di alcune installazioni per eventi artistici in Abruzzo, nel 2003 si diploma in Restauro a Firenze presso Palazzo Spinelli. Nel 2013 inizia a dedicarsi alla carriera artistica, che lo porta in breve tempo a esporre presso diverse istituzioni pubbliche, gallerie e fiere d’arte.