Eravamo nei caldi anni ’70 e io ero a Venezia in visita a Emilio Vedova. Invitati da Renato Cardazzo, ci ritrovammo tutti e tre a pranzo nel mitico ristorante La Colomba, allora frequentato da tutti gli artisti che arrivavano a Venezia, spesso ospiti dei loro mercanti. Il ristorante La Colomba era diventato un mito, quasi quanto La Biennale di Venezia, grazie alla sua cucina, alla sua location ma anche per i tanti dipinti esposti alle pareti di ogni stanza, come una quadreria: opere lasciate dagli artisti in cambio di pasti. L’illuminato proprietario del locale, signor Deana, con vocazione levantina, aveva capito che effettuare un cambio merci con alcuni artisti, oltre che rappresentare un gesto illuminato e di generosità, poteva essere anche un ottimo business. Infatti io guardavo incuriosito le numerose opere alle pareti di De Chirico, una grafica di Morandi, un’Amalassunta di Osvaldo Licini, splendidi oli di De Pisis, Vedova, Santomaso, Tancredi, Deluigi, Guidi, Music, Saetti…. e tutti i giovani frequentatori di Venezia di allora. Le decine di pareti delle varie stanze erano costellate da una quadreria curiosa e inusuale. E un allestimento gerarchico delle varie stanze: De Chirico e gli altri maestri nelle sale principali, i giovani artisti nelle salette più nascoste.
E prima o dopo la Biennale, tutti si passava, come un rito e senza osare mangiare per i prezzi proibitivi, ad ammirare le opere come in un museo. E come me molti altri appassionati. E chissà perché, tutte le opere esposte a La Colomba ci sembravano capolavori e ogni artista, famoso e no, era felice di partecipare a questa gioiosa festa popolare dell’arte in laguna.
A quei tempi io ero un giovane barbuto e capelluto, vestito di nero, un po’ stravagante come richiedevano l’ambiente e l’età e potevo essere scambiato per un artista bohémiens. Durante quel fatidico pranzo con Cardazzo e Vedova si avvicina al nostro tavolo un cameriere che chiede a Emilio se io fossi un artista. Si, si, rispose Vedova ridendo, è un giovane e importante artista americano. Il cameriere allora si precipita verso di me con un grosso album Fabriano e colori a cera: e mi si rivolge in inglese chiedendomi di fargli un disegno. Io tentai in tutti i modi di spiegargli che non ero un artista ma Vedova e Cardazzo insistevano sconfessandomi apertamente riuscendo a mettermi in difficoltà. Non sapendo come liberarmi dall’insistente cameriere che desiderava un mio ricordo pittorico, presi l’album e disegnai pazientemente e un po’ goffamente alcuni rettangoli concentrici colorati, partendo dai bordi, come all’epoca avrebbe fatto Frank Stella (una tipica opera di Hard-edge, arte ai bordi, più che di Pop Art, come allora era catalogato Stella) e che avevo visitato poco prima a New York accompagnato dal suo gallerista Leo Castelli. E firmai proprio Frank Stella, in quegli anni un mio artista di riferimento ma anche l’unico a me manualmente accessibile. E la a storia sembrò finire lì, con il cameriere felice e noi tranquilli.
Alcune settimane dopo, alla Fiera d’Arte di Basilea, incontro l’indimenticabile gallerista di Venezia Giovanni Camuffo e sua moglie. Camuffo era uno dei galleristi e mercanti internazionali di punta, con frequentazioni di alto livello, aveva realizzato nella sua Galleria del Leone esemplari mostre di Fontana, Manzoni, Paolini, Christo, di cui era grande amico, Rauschenberg, Yves Klein Mi parlò dei suoi viaggi a New York con l’inseparabile moglie e di alcune recenti acquisizioni. Sai, mi disse ridendo, in questi giorni ho concluso un curioso acquisto con un cameriere del ristorante La Colomba, che aveva un bellissimo disegno di Frank Stella, passato recentemente a Venezia e che gli aveva regalato.
Se ben ricordo non ebbi il coraggio di dire all’amico, per non deluderlo, che il disegno era mio.
Questo episodio della mia vita mi è tornato in mente in questi giorni, dopo che mia figlia Gea da New York, mi ha comunicato la scomparsa di Frank Stella, quasi mio coetaneo. Ho molto ammirato Stella, è stato un mio mito degli anni ’70, l’ho conosciuto grazie a Leo Castelli, ma non ho avuto altre occasioni per frequentarlo. Anche perché lui si manifestò freddo e indifferente nei miei confronti.
Come d’autunno sugli alberi le foglie: Claudio Poleschi, Fausta Squatriti, Pino Pinelli….
Quando un amico ci lascia non trovo mai parole di commiato. Né riesco mai a partecipare pubblicamente al suo ultimo saluto. Ritengo il dolore uno stato d’animo troppo privato e silenzioso per poterlo esternare. Si addensano su di me i sentimenti più disparati, i ricordi più belli, i momenti più gioiosi trascorsi con l’amico scomparso. Che non oso disturbare. Alcuni giorni fa ci ha lasciati Pino Pinelli, un artista e amico affettuoso di lungo corso. Di lui mi restano ricordi e immagini memorabili legati a Claudio Poleschi, un altro grande amico e prezioso protagonista dell’arte, gallerista e mercante a tutto tondo, inventivo e generoso oltre ogni dire, come non ne vedrò più. Claudio Poleschi, lui scomparso quasi due anni fa dietro un angolo, Pino pochi giorni fa rapito dal fato, Fausta Squatriti altra generosa protagonista della visione e della parola. Pino e Claudio, due splendidi fratelli e complici di molti sublimi estati trtascorsi a Pietrasanta e in Versilia.
E mi viene in aiuto il mio grande Giuseppe Ungaretti, lucchese (sì Claudio proprio lucchese), nato ad Alessandria di Egitto che dal fronte bellico delle sue montagne del Carso, nel 1914 mi scriveva: come d’autunno sugli alberi.
Giancarlo Politi