Così tentammo di aspettare la fine è la prima personale di Giuseppe Di Liberto alla Galleria Poggiali di Milano, dal 6 giugno al 13 settembre. L’opera di Di Liberto (Palermo, 1996) esplora il concetto di fine, sfidando la capacità umana di comprenderlo appieno. Attraverso sculture, tele, installazioni e performance l’artista esplora il paradosso dell’assenza e il mistero dell’immagine come simulacro, con particolare attenzione ai contesti socio-antropologici legati alla morte nella cultura mediterranea. Così tentammo di aspettare la fine esplora l’interesse dell’artista per due filoni tematici. Da un lato il ruolo dell’ex voto, una preghiera di buon auspicio che prende la forma di oggetto e, talvolta, anche di pittura, dall’altro il tema dell’apocalisse, filo conduttore della sua più recente produzione artistica.
La sensazione di una fine sempre più concreta e imminente è influenzata dall’esperienza diretta dell’artista e dai contesti urbani e naturali che lo circondano, come Venezia dove vive e lavora, e Sète, dove ha recentemente ultimato un periodo di residenza promossa del Ministero della Cultura italiana in Francia in collaborazione con Ecole des Beaux-Arts e CRAC (Centre régional d’art contemporain Occitanie/Pyrénées-Méditerranée). Le opere in mostra trattano il tema della fine e dell’Apocalisse con una particolare attenzione storico-antropologica alle tradizioni locali, riconoscendone l’attualità in un contesto d’emergenza contemporanea:
Per la prima volta la scienza ci ha resi profondamente consapevoli della fine: tra 16 miliardi e 700 milioni di anni il Grande Strappo chiuderà la partita dell’Universo. Siamo in un momento di trapasso, come è stato a suo tempo il Medioevo. Il dispositivo di mostra ruota attorno agli elementi trovati da Di Liberto sulle tombe dei pescatori del Cimetière marin di Sète, così chiamato dal poeta Paul Valéry, che ne scrisse in una raccolta di poesie e dove ora è sepolto. Tra questi, le pitture vernacolari realizzate con la funzione di ex voto dai marinai per scongiurare imprevisti durante i viaggi in mare. Pitture per esorcizzare la fine che confermano l’idea dall’esegeta francese Paul Beauchamp per cui l’Apocalisse nasce proprio “per aiutare a sopportare l’insopportabile”.
Una serie di incensieri stampati in 3D, Feu Marin (2024), emanano fumi al centro della prima stanza. Con le fiammelle rosse realizzate in cera sulla tela Punto di fuga (2023), ricordano l’iconografia della fiamma, tipica del corredo funebre del bacino mediterraneo reinterpretando simbolicamente i sistemi di segnalazione d’emergenza utilizzati dalle imbarcazioni in mare in stato di allarme, che bruciano emettendo un breve segnale verso il cielo prima di spegnersi in una lunga fumata. Il quarto cavaliere (2024) ricorda Il Trionfo della Morte, un affresco del 1446 custodito alla Galleria regionale di Palazzo Abatellis, richiamando le radici palermitane dell’artista. Scheletrico sulla sua cavalcatura, sorride con ghigno beffardo alla fine imminente. Insieme a Il suono della seconda tromba (2024), reinterpreta l’iconografia dell’antico arazzo medievale commissionato da Luigi I d’Angiò, fatto a pezzi durante la Rivoluzione Francese per fornire coperte al popolo e ora esposto nel Castello di Angers in Francia.
Il ritorno dell’iconografia del mare in tempesta allude in mostra al capolavoro La Zattera della Medusa realizzato da Théodore Géricault nel 1818 e definito dal critico d’arte americano Jerry Saltz “una pittura per un mondo in collasso” in cui il tema dell’apocalisse lega indissolubilmente la rivolta degli elementi naturali con il crollo di un ordine politico: le onde, il mare e il cielo in tumulto di Géricault evocano lo sconvolgimento dei tre milioni di morti nei campi d’Europa durante le guerre napoleoniche, come le figure instabili disperatamente aggrappate a quello che rimane del’imbarcazione di Di Liberto rappresentano il profondo e inevitabile sconvolgimento alle porte. Anche nella tela orizzontale Merci N.D. (2024) una serie di personaggi naviga su una piccola imbarcazione sovrastata da un mare in tempesta. La natura li sovrasta e travolge, eppure, i loro volti non tradiscono alcuna emozione. I vogatori appaiono placidi, mentre continuano a remare con lo sguardo fisso verso una figura divina fuoricampo.
Quando ero piccolo ricordo che a Palermo c’è stato un terremoto. Mia mamma mi ha svegliato e siamo scesi in strada. Lo stato di allarme aveva creato cambiamento e mi colpiva la straordinarietà della situazione: noi, i vicini, eravamo tutti lì riuniti, nel cuore della notte, in pigiama. Un tappeto sonoro, realizzato dal sound artist Federico Pipia per l’occasione, accompagna i visitatori in mostra. Un suono distorto, un presagio di una fine all’orizzonte. L’intensa drammaticità e il carattere teatrale dell’allestimento giocano con la percezione dello spettatore, inducendolo a spostarsi continuamente tra una narrazione contemporanea e una invece lontana e immaginaria. Uno spaesamento che termina nella seconda stanza, dove il calco dormiente di ciò che rimane di un volto impressiona per sempre la faccia in un cuscino.