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Recensione: I colori della passione

Titolo originale: The Mill and the Cross
Paese: Svezia, Polonia
Anno: 2011
Durata: 92 min
Genere: drammatico
Regia: Lech Majewski
Musiche: Lech Majewski, Józef Skrzek
Fotografia: Lech Majewski, Adam Sikora
Montaggio: Eliot Ems, Norbert Rudzik
Interpreti e personaggi: Rutger Hauer: Pieter Bruegel; Charlotte Rampling: Mary; Michael York: Nicolaes Jonghelinck; Joanna Litwin: Marijken Bruegel; Dorota Lis: Saskia Jonghelinck; Oskar Huliczka: musicista che suona il corno; Marian Makula: Miller.

La pazienza è un’arma a doppio taglio. Armarsi di pazienza vuol dire nessuna colonna sonora. L’orecchio deve pensare il colore, e l’occhio dovrà imparare a riconoscere i suoni. Quelli che consentono al ragno di tessere la sua tela, e all’artista di dipingerla en abyme. Ma chi è dotato di pazienza fino a questo punto? Il regista svedese Lech Majewski, e speriamo anche il suo pubblico.

“The Mill and The Cross”, approdato nelle sale italiane con il titolo riduttivo “Tutti i colori della Passione”, non è un film, quindi non aspettatevi un film. La pazienza, in certi casi, fa rima con essenza e l’essenza di questo piccolo capolavoro made in Polonia corrisponde al movimento lento e meticoloso dell’artista Piter Brueghel il Vecchio (1525-1569), i cui dipinti sono diventati celebri in tutto il mondo per la loro ricchezza di particolari brulicanti, come nella più viva tradizione dell’arte fiamminga in pieno clima Rinascimentale.

Inverno del 1565. La bruma fitta delle Fiandre ammanta l’entroterra con un’aria farinosa e cupa: sono gli anni sanguinari della Riforma Protestante e i Paesi Bassi sono occupati dagli Inquisitori. Un redivivo Michael York (l’amante-amico di Liza Minnelli in Cabaret, tanto per citare un gioiello della sua collezione filmografica) interpreta Niclaes Jonghelinck, il ricco mercante e banchiere di Anversa, noto committente di Brueghel. Il volto e la voce del pittore sono di Rutger Hauer, che forse tutti ricorderanno per l’indimenticabile interpretazione del Replicante in Blade Runner (1982). Sono trascorsi trent’anni da allora, eppure anche questa volta, attraverso gli occhi dell’artista fiammingo, l’attore olandese “vedrà cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare”… Il quadro commissionato è La salita al Calvario, ma nelle mani di Majewski, l’opera diventa un pretesto per dipingere a sua volta un affresco commovente della civiltà contadina, sopraffatta dalla violenza di un “Dio che non alberga nei loro breviari”. Nel preparare i cartoni dell’opera, l’artista descrive il procedimento con cui intende comporre la scena, attorno ad un punto d’ancoraggio; il suo approccio è antropologico e filosofico ad un tempo, interessato a cogliere tanto l’anima grottesca e rude della plebe agreste, quanto la loro umanità, il pensiero umile e semplice del “buon villano”. La scenografia è frutto di un sapiente uso di tecniche tradizionali e tecnologia, dall’uso del blue screen per ricreare le ambientazioni care a Brueghel, ai fondali dipinti e le vedute reali. Come tableux vivant, le comparse si dispiegano fra le quinte del paesaggio campestre, ciascuno impegnato ad interpretare il proprio ruolo. La loro purezza terrena si sostituisce al divino, come precisa il pittore: «in molti quadri, Dio è rappresentato nel punto più alto dell’opera, intento a separare le nubi… Nel mio dipinto il mugnaio prenderà il suo posto.»

La monotonia didascalica dei dialoghi è compensata dal ritmo della narrazione, sempre in bilico tra l’adesione fedele al dato storico-sociale e la forza evocativa dell’opera inscenata.

In modo analogo, quando ci troviamo davanti a un dipinto, la contemplazione è suscitata dal richiamo di qualcosa che è stato, e che, sorprendentemente, ancora è.

La memoria dell’opera d’arte e la nostra intrattengono una conversazione, provano a dare forma e colore alle sensazioni sospese tra passato e presente. Al racconto del pittore, infatti, fa da contrappunto quello della madre (Charlotte Rampling), che interpreta anche la madre di Cristo, raccontando con toni drammatici i vari momenti della Passione: trasposizioni quasi esatte dei versetti evangelici. Il film si trasforma in piéce teatrale, la sua temporalità diventa drammaturgica, non c’è spazio per l’effettistica del linguaggio cinematografico. Su questo versante, una nota di riguardo va riconosciuta alla fotografia diretta da Majewski assieme ad Adam Sikora, che rende perfettamente le tonalità brune, olivastre e amaranto dei dipinti di Brueghel: i colori del folklore, del paesaggio, ma anche degli indumenti indossati dai contadini, delle loro case e del loro bestiame. Pier Paolo Pasolini avrebbe amato questo film. Personaggi di strada, scene di vita rurale disvelata senza alcun orpello retorico, nessuna affabulazione narrativa. Anche le inquadrature risentono di una certo elegiaco realismo pasoliniano: dai campi larghi sul paesaggio, alle inquadrature fisse sugli interni, dove si radunano frotte di bambini vivaci, donne impegnate a sbrigare consuete faccende domestiche, alternate a inquadrature in esterno dove si alternano momenti di pace e di guerra. Dal raduno corale dei contadini attorno ai loro defunti, alle torture inflitte dai soldati dell’Inquisizione, che inveiscono sui presunti “eretici” con indifferente crudeltà (donne seppellite vive, carcasse date in pasto ai corvi, flagellazioni, prigionia, etc.).

Nell’ultima novella del Decameron, il Pasolini-allievo di Giotto ha la visione della Madonna (interpretata da una statuaria Silvana Mangano), e riesce finalmente a completare l’affresco nella Cappella di Santa Chiara. L’opera sognata si traduce nell’opera pittorica, dove l’arte del Sacro e quella del Profano convivono.

Anche ne I Colori della Passione, il regista rovescia il piano sogno/realtà mostrandoci il quadro originale di Brueghel. La Salita al Calvario viene rivelata in tutto il suo splendore, con uno zoom all’indietro che ci fa capire che ci troviamo in un museo, come se il regista fosse riuscito a viaggiare nel tempo dell’opera e tornare infine nella nostra epoca, dove possiamo ammirarla ancora oggi esposta al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Lech Majewski si era già confrontato con il registro del biopic in occasione del film su Basquiat, completato successivamente da Julian Schnabel. Rispetto ad altre simili trasposizioni cinematografiche sulla vita o sull’opera dei artisti, dalla Ragazza con l’orecchino di Perla di Peter Webber, a Goya di Carlos Saura (del 1999, o l’adattamento più recente di Milos Forman, L’ultimo Inquisitore, del 2006), da I colori dell’anima, sulla vita di Modigliani (Mick Davis, 2004) o ancora Pollock diretto da Ed Harris (2003), il modo in cui il regista polacco racconta l’opera di Brueghel ha il sapore della docu-drama, dove verità e finzione vanno a braccetto per rivelarci i segreti di un mondo enigmatico e affascinante. Con intenti quasi didattici, Majaweski ci chiede di avere pazienza, perché solo la pazienza sa leggere dove la fretta è analfabeta.

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