Francis Bacon e Catherine Opie: due prime volte in Brasile, costruendo una visione oltre il queer dello sguardo sull’altro e su se stessi, al MASP di San Paolo
Entrato ufficialmente nell’immaginario comune dopo la nomina del suo direttore, Adriano Pedrosa, a capo della Biennale Arte 2024, il MASP di São Paulo (Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand) – dopo le storie dedicate al Brasile e all’arte indigena – quest’anno propone come focus il lato queer dell’arte contemporanea e, per ora, le due mostre attualmente in scena sono colpi da maestro. Stiamo parlando di Francis Bacon, A beleza da carne, curata da Pedrosa con Laura Cosendey e con l’assistenza di Isabela Ferreira Loures, e di Catherine Opie, O gênero do retrato, curata anch’essa dal direttore con Guilherme Giufrida. Per cominciare, sia Bacon che Opie rappresentano due prime volte in Brasile; altro punto a favore è che non capita tutti i giorni di vedere oltre venti opere di Bacon a coprire quattro decadi di produzione dell’artista irlandese in una mostra precisa, lineare e senza sbavature: solo pittura, splendida pittura, in un processo allestitivo e progettuale che – ci racconta Cosendey – ha richiesto quattro anni di negoziazioni con musei di mezzo mondo, oltre che con molte collezioni private.
E poi c’è lei, Catherine Opie, le cui sessantasei fotografie in scena (ritratti, ovviamente) coprono un periodo di 35 anni di carriera (1987-2022) e sono in dialogo con 21 ritratti antichi della collezione del MASP, che vanno niente meno che da Modigliani a van Dyck, da Velázquez a Manet, da Goya a Lucas Cranach il Vecchio, da Rubens a Tiziano, chiudendo con Vincent van Gogh. Ma non è solo questo che cattura l’attenzione: è l’allestimento realizzato utilizzando i cavalletti di vetro di Lina Bo Bardi, “madre” del MASP, che rendono questa mostra una delle più curiose tra quelle viste nell’arco di questo 2024. Il perché del “gênero” del titolo è presto rivelato, e gioca con la differenza tra la parola “genere” in portoghese, in opposizione all’inglese “gender/genre”: se da un lato abbiamo il genre che identifica il tipo, la specie, la forma, la classe, la categoria, ovvero il ritratto, il paesaggio, la natura morta, sull’altro versante c’è il gender che identifica la differenza delle identità.
Ecco, dunque, l’appropriazione di Opie a un “genere tradizionale” della storia dell’arte per raccontare – dall’inizio della sua carriera, nei primi anni ’80 – quella che è stata la sua comunità, il mondo queer di Los Angeles, iscrivendola nell’olimpo dei più grandi fotografi e fotografe della contemporaneità. Un dialogo intenso tra corpi, identità, sessualità e proiezioni e associazioni che stanno, chiaramente, anche nell’occhio di chi osserva: San Sebastiano e un role-play, l’amico e collega Ron Athey ritratto nudo, in piedi e statuario al pari di un condottiero, i ritratti in posa dei membri della grande famiglia di Opie accanto ai volti di altri tempi, a creare analogie brillanti che sono messe in risalto dalla stessa composizione del montaggio: attraverso le trasparenze dei cavalletti vengono messe in risalto stratificazioni, appartenenze, confluenze, in una fluidità che in questo caso non è solo un concetto vacuo e alla page per identificare qualcosa di non completamente definito ma un corso e ricorso storico che permette una lettura circolare dei tempi e dei generi dell’arte.
Al primo piano Francis Bacon o, in questo caso, il re della bellezza della carne. Ma anche della tragedia della carne, dell’istinto, dell’erotismo, dello scorrere del tempo, dell’ineffabilità della fine, dell’assurdità della vita, del peso del corpo, della levità dell’istinto e dell’immaginario. E, come argomento utilizzato in maniera pionieristica in questa selezione di 23 opere prodotte tra il 1947 e il 1988, uno dei più incredibili pittori “queer” di ogni tempo, nonostante più che all’aspetto privato della propria vita, Bacon era interessato a ritrarre quella “sensazione” percepita da Deleuze che, senza ombra di dubbio, andava ben oltre la storia sentimentale contenuta nei ritratti che l’artista realizzava a partire dalle fotografie dei suoi soggetti.
Già, per Bacon lo studio della figura umana veniva dalla fotografia, dagli atlanti anatomici, dai libri di medicina, dalla trasposizione di frame di Muybridge e dai grandi artisti del passato, Velazquez in primis. Così, nella prima personale brasiliana del pittore rivediamo i volti e le sagome di Peter Lacy e George Dyer, gli amanti storici e turbolenti che – per i beffardi scherzi del destino – morirono entrambi alla vigilia di due delle più importanti mostre che Bacon tenne in vita; Lacy nel 1962, poco prima dell’opening dell’artista alla Tate di Londra; Dyer quasi dieci anni più tardi, nel 1971, un paio di giorni prima dell’apertura della retrospettiva parigina di Bacon al Grand Palais: Bacon li omaggia entrambi, inserendosi a sua volta nel mezzo del trittico Study for Three Heads (1962), in prestito dal MoMA. Ma ci sono anche Seated Figure on a Couch (1959), proveniente dalla galleria Skarstedt di New York, oltre a varie figure in piedi o abbandonate su sofà, in carne, sesso e sangue a vista, con lo stile unico e incredibile che da sempre ha contraddistinto Bacon, perennemente in bilico tra eccitazione e violenza, tra affetto e carnalità, nel dualismo che – volendo o no – appartiene alla storia dell’uomo nonché all’istinto di sussistenza primaria, quello di consumare carne per la propria sopravvivenza. Bacon è in cartellone fino al prossimo 28 luglio, mentre Opie resterà al MASP fino al 27 ottobre, per poi lasciare posto al mitico José Leonilson, figura cardine della “Generazione ’80” (in mostra dal 23 agosto) e alla grande collettiva Storie della diversità LGBTQIA+ (dal prossimo 13 dicembre).