Tra il misterioso furto di Isabella Stewart Gardner e la solitudine ispiratrice di Edward Hopper a Cape Cod: un viaggio d’agosto con “Il sole allo zenit”, svelando storia e bellezza
Enough is enough a un certo punto devo aver pensato del caldo italiano di luglio prima di decidermi a partire per un viaggio da sogno. E così ho raggiunto tre posti tra loro non distanti che volevo vedere da molto. D’altronde ogni pentola ha il suo coperchio e io ho provato a porli volando, che tanto era inutile star qui a consumarsi come un cero fiacco o come il Sant’Andrea del Caravaggio. Ho cosi raggiunto Boston e ho verificato finalmente di persona cosa ha creato la Gardner, ovvero lsabella Stewart. E sapete una prima cosa? Chi si chiama Isabella all’Isabella Stewart Gardner Museum ha entrata libera. Non era il mio caso ovviamente ma ho trovato simpatica l’offerta e là ho scoperto altre ispirazioni che condivido volentieri. Innanzitutto l’incredibile palazzo che ospita la grandiosa raccolta è influenzato dall’amore per Venezia e dalla sua architettura. Per realizzarlo la signora chiamò al lavoro diversi carpentieri, italiani ed europei in generale, alla sola condizione che non parlassero l’inglese così che nessuno potesse rivelare alla gente locale la sorpresa in costruzione. Isabella stessa supervisionava il loro operato di persona e tra le carte private, che è emozionante consultare, ci sono alcune fotografie che la ritraggono in cima a una scala, indicando come intonacare una parete. Nel frattempo aveva acquistato il primo autoritratto di Rembrandt mai eseguito, si era aggiudicata un Vermeer da brivido e aveva ospitato John Singer Sargent, che ben due volte la ritrasse, nella sua abitazione.
La prima opera che ne uscì creò scandalo per la posa, per le perle in vista sulla cinta e per quella specie di aureola nel tessuto alle sue spalle che il volto pare accogliere; la seconda, in acquerello, fu conclusa due anni prima della dipartita di Isabella, ritratta ancora in veste ambigua. Nel mentre la signora non si fece scappare dello stesso amico autore un ritratto di Lady Virginie Amélie Avegno, ovvero quella scandalosa Madam X che anni prima era parsa inappropriata per la spallina del vestito scesa e che nel dipinto scelto qui brinda con un bicchiere che possiamo intendere alla sua salute. In effetti l’allestimento lo curò la Gardner interamente ed è di gran divertimento scovare le possibili connessioni esistenti. Isabella, tra i vari pregi, fu anche la prima a portare un Raffaello in terra americana e ad acquistare quel capolavoro di Tiziano, addirittura conteso tra due musei di nota fama, che è il Ratto d’Europa.
Al piano terra c’è anche un Cristo porta Croce di incerta attribuzione, ormai considerato di un discepolo Belliniano, che reca al proprio fianco un vaso di fresche viole, abitudine iniziata dalla Gardner il secolo scorso che lo staff del museo continua a mantenere imperterrito. La signora infatti aveva le idee ben precise e quando se ne andò nel 1924, ormai ottantaquattrenne, lasciò scritte tutte le indicazioni e i fondi al museo per coprire le spese. Suo mentore dell’inizio e soprattutto abile consigliare, tanto da farle raggruppare un’invidiabile insieme rinascimentale fu un giovane conterraneo emigrato altrove: il mitico Bernard Berenson, a cui Isabella deve 24 delle sue principali opere, anche se nel corso del tempo (e qui esiste un carteggio straordinario) i rapporti si freddarono perché Berenson fu scoperto ad aumentare le sue commissioni di parecchio. Accadde infatti che all’inizio del 1900 Berenson recuperò per Isabella il Paesaggio con un Obelisco inizialmente attribuito a Rembrandt (e anni dopo restituito a Govert Flinck, suo seguace) ma presto la signora ricevette un’offerta da un altro mercante per una cifra inferiore. Berenson, colto in flagrante, si attaccò ai vetri e sostenne che era assolutamente possibile che lo stesso quadro venisse offerto per una cifra minore perché nell’arte tutto era plausibile, le ricordò che non era minimamente responsabile dei prezzi che lui stesso riceveva e ribadì che il valore di un’opera d’arte non era il medesimo da un momento all’altro e nemmeno per due persone nello stesso giorno. La nave beccheggiò ma non si ruppe e la conversazione continuò anche se le acquisizioni diminuirono per l’estinguerei delle risorse perché, come precisò la Gardner in una lettera, adesso era davvero povera (tesi discutibile perché la collezione nel corso degli anni si valutò per ben oltre l’esborso). Isabella si disse comunque contenta e per nulla provata dal dover fare economia perché il denaro era stato speso esattamente come lei voleva. Evviva. Qualcosa andò storto solo successivamente, ad anni di distanza, come le cornici vuote esposte nel museo in cruciale posizione inducono a pensare. E infatti la collezione sarebbe ancor più ricca se quella notte del millenovecentonovanta, con la parata di San Patrizio in corso, non ci fosse stato il furto che ben nove opere sottrasse. Giallo tuttora irrisolto, per un valore ormai di mezzo miliardo, tanto che chi fornisce indicazioni a riguardo riceve ben 10 milioni di dollari come compenso.
E, invidiando il futuro Sherlock che nell’operazione avrà successo, ho così abbandonato il giardino incantato e il suo mistero e mi sono diretto poi alla Dia Beacon Foundation, per la prima volta e con il treno come d’usanza, per vedere dal vivo l’immensa stanza di Warhol e On Kawara con le rigorose Today Series, le dolci tende di Felix Gonzalez-Torres, e North, East, South, West di Michael Heizer. L’illusorio Donald Judd di legno, la sfilata dei Blinky Palermo, Stanley Brouwn con la stanza dei raggi cosmici e quella con le sue misure, e anche qui c’è poco da dire.
E infine sono stato in pellegrinaggio in quell’atelier leggendario dove Edward Hopper si era sistemato con la moglie Jo, lungo la Fisher Beach di Cape Cod. Mi ci è voluto un sacco a trovarlo, ma eccolo qui. Una semplice salt house con l’aggiunta di una grande finestra a Nord, perché era quella la luce ideale -il Maestro disse- con la quale un pittore dovrebbe dipingere. Per quel che ci è dato sapere Edward occupava la parte dell’abitazione che si rivolgeva alle colline mentre la moglie ammirava la baia e s’incontravano di tanto in tanto per discutere.
D’altronde scelse lui stesso quella moglie priva di senso dell’umorismo che lo accompagnò per buona parte del suo vissuto, alla fine del quale dipingeva poco più di un quadro all’anno e si sentiva un po’ accantonato per il suo stile figurativo considerato decrepito. E sebbene cercasse nella lettura un filosofo che alleviasse la sua vecchiaia, sono convinto che quel paradisiaco angolo di mondo gli sia stato di gran conforto.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni