Nella cittadina veneta le tre sedi di Androne 51, Studio Work e The Art Agency ospitano la personale dell’artista di origini albanesi
Al di fuori del clamore delle rotte ufficiali, nel Veneto ci si può imbattere in un gioiellino, realizzato con pochi semplici mezzi e soprattutto con passione disinteressata, una bella mostra da visitare, e che a differenza di altre fa riflettere, a Portogruaro. Si tratta della personale con tele e opere su carta di Alkan Nallbani, “La montagna fra disastro e soluzione”, a cura di Boris Brollo supportato da Marcantonio Bolzicco e distribuita nella cittadina in tre sedi: Androne 51, Studio Work e The Art Agency.
La pittura oggi si trova ad affrontare la sfida, stimolante, di sopravvivere aggiornando al presente un mezzo che è inevitabilmente sovraccarico delle sue preziose matrici storiche. Il rischio che costantemente si corre è quello di cascare nella riproposizione, implicita in certi filoni stilistici, di modelli tematici, ideologici e filosofici del passato che non sono adeguati ad uno scenario e ad una sensibilità divenuti completamente diversi . La pittura dell’artista di origine albanese Alkan Nallbani, residente a New York ma spesso attivo anche tra Italia e Albania, lavora secondo un principio di understatement, rifuggendo gli effetti facili, e non cade nell’ostentazione di atmosfere romantiche o nostalgiche con il loro correlato di sentimentalismi.
La tecnica della pennellata pastosa e in bella vista richiama un figurativismo vicino all’Espressionismo storico, ma più vicino a Lovis Corinth che a Kirchner, con un che di distaccato e sommesso. I vari soggetti, che siano autobiografici in presa dal vero o basati su immagini fotografiche d’epoca sono trattati con lo stesso approccio, descrittivo per quel che basta, mantenendo una certa atmosfera generale senza punte emotive. Alcune persone sono colte in atti comuni, un uomo convalescente (l’autore stesso), un taglialegna, un barbiere sono svaporati della loro individualità quasi a rappresentare degli archetipi di loro stessi.
Alcuni dipinti sono ispirati alle note foto della spedizione di Edmund Hillary che, insieme allo sherpa Tenzing Norgay, conquistò nel 1953 la vetta dell’Everest e la tecnica compendiaria con cui sono riprodotte, pur mantenendole identificabili per chi le conosce, gioca su una certa misteriosità dell’immagine: si ha l’impressione di un offuscamento, di nebbia materica e greve, non tonale, di quello che già di per sé è un lacerto. Si allude, velatamente, alla necessità del referente esterno, che è l’orizzonte storico degli eventi, la cui vastità lo rende irriproducibile se non nell’infimo dettaglio.
Nelle parole di Nallbani la sollecitazione per il soggetto specifico della famosa spedizione risale ai suoi ricordi giovanili: “Durante l’epoca del regime comunista erano permessi solo occasionalmente dei documentari sull’esplorazione. Quando avevo circa 10 anni un documentario sulla scalata del monte Everest di sir Hillary riuscì a superare la censura del governo e lo guardai con meraviglia mentre lui e lo sherpa Norgay conquistarono la montagna. Diventarono idoli globali. Ma rimasero in me come un’aspirazione unica, quella del sacrificio perseverando nella conquista e creando la bella idea che il Monte Everest è dentro ciascuno di noi”.
Il curatore Boris Brollo, nella sua presentazione, accenna alla ricchezza delle allusività connotative con cui il corso della storia della Cultura ha rivestito la figura della Montagna: montagna come rifugio dal disastro, montagna come Utopia, com’è stato per la comunità di Ascona, la Montagna del famoso romanzo di Thomas Mann come microcosmo sociale con tutte le contraddizioni tipiche del mondo, Montagna come isolamento e riapertura al proprio vero sé, come raccontano tanti esploratori e scalatori.
Mentre la Montagna diventa per Nallbani matrice e meta, la perseveranza e la fatica si traducono in una pratica pittorica che testimonia di uno stato di coscienza stabile, vigile. Come nel filone inaugurato da Richter e perseguito da Tuymans e altri, fino all’italiano Serse Roma, si rifugge il “pittoresco”, anche se in questo caso la tavolozza non è monocroma. C’è la stessa attenuazione del trasporto emozionale e si mescola piuttosto, lucidamente, natura e tecnica, divenire e controllo, sconfinatezza e misura. Dopotutto gli atti umani, collegati a degli strumenti per quanto rudimentali e antiquati, sono atti che sottintendono intrinsecamente la tecnologia come categoria che si erge assoluta quasi quanto la natura e quantomeno come il più avanzato metodo di conoscenza della stessa.
Nel grande disegno su carta, riproducente il fogliame di un bosco, elemento essenziale diventa l’inserto tridimensionale della casetta per gli uccelli, costruita verosimilmente da un ornitologo di sorveglianza. È lo stesso tipo di sguardo del geologo, che spezza le pietre per indagarne l’interno, dello scienziato che coglie l’immensità dei contorni, ma che non si spende in misticismi e fantasmagorie e continua piuttosto nell’interminabile opera di sbozzamento dell’informe verso l’essenziale, quasi freddamente. Quasi.