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Il secolo lungo in mostra a Milano. Intervista al curatore Stefano Castelli

Milli Gandini, La mamma è uscita (trittico, elemento #1), 1975, stampa fotografica, ed 1_5 + 1 p.a., cm 24x30 ciascuna foto © MLB Maria Livia Brunelli Gallery
NOVECENTO – Il secolo lungo, installation view, Milano 2024, © Galleria Giovanni Bonelli

Il Novecento sfocia con voce nuova oltre la linea di demarcazione di un periodo circoscritto, tanto da diventare spunto e materia di interesse per una mostra che coinvolge quindici artisti tra giovani e storici. L’esposizione, a cura di Stefano Castelli, è visitabile fino al 19 ottobre 2024 da Giovanni Bonelli a Milano e accompagnata da un testo inedito di Aldo Nove. 

In quali termini il Novecento oggi ci influenza? Perché diventa necessario tenere a mente la sua eredità, il suo retaggio?

Sul piano estetico, gli artisti (anche molto giovani) che fanno riferimento al Novecento lo fanno in modo diverso rispetto a pochi anni fa. In pittura, ad esempio, riferirsi al passato portava spesso verso la classicità, la citazione e il passatismo, anziché verso la sperimentazione. In diversi casi, oggi viene invece analizzata l’eredità del Ventesimo secolo su un piano linguistico: gli artisti studiano l’estetica di alcuni numi tutelari, la interiorizzano, la decostruiscono e la trasformano in qualcosa di nuovo. È il caso, in mostra, dei bn+BRINANOVARA e di Giorgio Silvestrini, tra gli altri. Riferirsi al Novecento diventa dunque un’operazione di stampo progressista, anziché conservatore. D’altronde, va considerato che è cambiato il mondo e dunque citare il passato significa qualcosa di diverso rispetto a quello che significava anche solo cinque anni fa. 

E sul piano storico?

Anche sul piano storico-politico tener conto delle lezioni del Novecento appare oggi fondamentale. Nel bene e nel male, ovviamente, in positivo e in negativo; ciò che oggi ci rende confusi è la caduta di alcuni criteri del secolo scorso e d’altro canto i problemi che ci opprimono sono ancora quelli dell’epoca. Ma prima ancora di parlare dei suoi contenuti specifici, ciò che è fondamentale è proprio che il Ventesimo secolo prevedeva delle categorie, principi di base condivisi (anche se rivedibili) nei quali le cose contingenti si inserivano. Un aspetto che oggi è completamente saltato. 

Hai parlato di progressismo, se ho capito bene però questa idea non implica cancellare periodi o epoche precedenti.

No, il progressismo non è mai stato inteso in questo senso e non lo è nemmeno adesso. Va anche detto che oggi, essendo saltate le categorie, è persino difficile collocarsi nel continuum tra posizioni progressiste o conservatrici. Non voglio ovviamente dire che l’unico modo per guardare avanti sia guardare al passato, ma è certamente un atteggiamento utile nello smarrimento.

NOVECENTO – Il secolo lungo, installation view, Milano 2024, © Galleria Giovanni Bonelli

Nel testo inedito che Aldo Nove ha scritto per la mostra si parla di un “eterno debito” e di “prodromi di un futuro passato”…

L’importanza dell’eredità del Novecento deriva anche dal vuoto che è arrivato dopo (o, nella migliore delle ipotesi, dal fatto che ciò che è avvenuto dopo è ancora in costruzione). L’approccio di Aldo Nove, per quanto niente affatto celebrativo, comprendeva da subito (anche quando scriveva negli anni Novanta) una componente di nostalgia. Perché coglieva “in diretta” il Novecento come qualcosa che stava andando in rovina (cosa che ora è evidente, col senno di poi). E anche questa mostra ha certamente diversi spunti ottimisti o utopici, ma contiene anche tante rovine, relitti del passato, constatazioni di come certe idee abbiano deluso le aspettative.

Si può quindi parlare di tradizione in riferimento al Novecento? Una tradizione antica che lo attraversa e si ripropone oggi?

Decisamente no. A inizio Novecento avvenne un cambio di paradigma totale: il concetto di arte che usiamo oggi è un altro rispetto a quello valido fino a fine Ottocento. Il Ventesimo secolo non fa semplicemente cambiare l’arte, fa nascere il concetto attuale di arte. La “tradizione” a cui noi ci riferiamo inizia dunque nel Novecento. Chiaramente il Novecento non è inconsapevole dei secoli precedenti, ma i suoi cambi di paradigma sono assoluti. Diffido tra l’altro del termine tradizione, perché si intende come qualcosa di dato, qualcosa che è “da sempre così”, qualcosa di innato e che quindi viene imposto. Spesso anche in arte l’idea di tradizione esclude la sperimentazione. Il riferimento al passato deve avere un approccio concreto, di studio, di analisi storica. 

Gastone Novelli, Claudio Costa, Milli Gandini, Mariuccia Secol e Tancredi insieme a Mattia Barbieri, Umberto Chiodi, Davide Volpi e altri giovani presenti in mostra. Qual è il nesso tra queste diverse generazioni?

Per rispondere seccamente: il nesso non c’è, perché la mostra non mette a confronto diretto le diverse generazioni. Nell’allestimento si trovano certo tantissime corrispondenze, che sembrano casuali ma che casuali non sono. Le opere dialogano liberamente dando vita a un “concerto”, ma non c’è nessun paragone e nessuno degli artisti giovani si è direttamente ispirato agli storici presenti. D’altro canto, però il legame è fortissimo, perché vengono affrontati temi analoghi. Gli artisti storici sono ancora significativi, con il loro approccio radicale e coraggioso, anticipatore, e testimoniano dell’importanza della ricerca novecentesca; i giovani parlano ancora di quei temi e utilizzano ancora certe atmosfere. 

NOVECENTO – Il secolo lungo, installation view, Milano 2024, © Galleria Giovanni Bonelli

Quali sono gli aspetti che rendono significativi e attuali gli artisti storici?

Gastone Novelli rappresenta alla perfezione la pittura “logocentrica”, idea che prima del Novecento non esisteva. Nel quadro in mostra [Un discorso perduto, 1957] c’è in forma embrionale la sua scrittura, che qui è ancora “scarabocchio” e poi diventerà fatta di parole. Tancredi rappresenta l’astrazione come linguaggio di impegno politico, cosa che oggi è difficile da cogliere ma che rimane fondamentale, anche perché l’impegno politico diretto oggi rischia di non essere efficace. Claudio Costa rappresenta la ricerca antropologica e l’idea di archivio, così presente negli ultimi anni, decenni dopo le sue anticipazioni. Le opere femministe di Milli Gandini e Mariuccia Secol sono ancora oggi una lezione di radicalità e ironia. Il legame tra i vari artisti, quelli storici appena citati e i giovani, è in fondo una comunione di intenti, una visione precisa dell’arte che unisce forma e contenuto, che non si pone come antipolitica o passatista. 

Non c’è dunque qualcosa di tradizionale in questa “comunione di intenti” che tu hai descritto bene? 

Direi di no. È una mostra che guarda al presente, a ciò che è rilevante oggi. Se questa mostra è significativa, come io spero, lo è per il visitatore del 2024, anche in opposizione ad altre tendenze artistiche odierne che invece sono più spensierate e inconsapevoli. Non si tratta di riprendere la tradizione, è un’analisi linguistica e di contenuti dell’importanza di un periodo.

Per tradizione intendo le caratteristiche di una certa cultura che permangono nel tempo e sulle quali anche il presente si fonda. Non significa andare avanti con lo sguardo rivolto al passato. Non è una riproposta, né tantomeno una rivisitazione.

È una questione di termini, ma non credo che il Novecento si sia mai posto nell’ottica di creare una tradizione. Si è posto, invece, nell’ottica di rivoluzionare il mondo e di stabilire dei criteri. Il Novecento, certo, porta alle estreme conseguenze, nel bene e nel male, il secolare percorso della cultura europea, ma c’è anche, per fare solo un esempio, la scoperta degli altri popoli in quanto paritari (almeno nella teoria etnografica, la realtà è stata un’altra cosa, spesso ben più ingiusta): nell’allestimento, ciò accade simbolicamente con i popoli indigeni che ci guardano dall’opera di Claudio Costa come da una finestra. 

Claudio Costa, …Il cielo, guardando…, 1978, fotografia sotto vetro, elemento vegetale, legno su doppia tela inchiodata in teca, cm 59x74x9. © Archivio Claudio Costa e C+N Gallery CANEPANERI

Spesso il fatto che un giovane si ispiri a movimenti del passato viene considerato un difetto. Non è forse imparando da quanto è accaduto prima che si può arrivare ad un elemento di originalità?

Per me non c’è una regola. Dipende dal periodo storico e dipende soprattutto dal modo in cui ci si ispira ai precedenti. Certamente, non sapere nulla del passato impedisce a un artista giovane di essere anche solo efficace. Ma ciò che è fondamentale rimane la sperimentazione. 

Non c’è dunque l’intenzione in questa mostra di unire artisti storici e giovani per una questione di forma?

No, sono accomunati da un atteggiamento. Hanno in comune la consapevolezza e, se vogliamo dire una cosa altisonante ma vera, la nobiltà d’intenti.

Cosa intendi per nobiltà d’intenti?

Nobiltà d’intenti significa, per esempio, non vedere l’arte come una forma di divertimento, non scindere forma e contenuto, non avere un atteggiamento personalistico nei confronti dell’opera ma sapere che ogni opera è un commento sul mondo, qualunque forma prenda. Considerare con gli occhi di oggi alcune categorie e contingenze di un secolo come il Novecento denota poi un atteggiamento di consapevolezza particolarmente marcato.

Milli Gandini, La mamma è uscita (trittico, elemento #1), 1975, stampa fotografica, ed 1_5 + 1 p.a., cm 24×30 ciascuna foto © MLB Maria Livia Brunelli Gallery

Una mostra come questa porta a riflettere sul tema scottante della periodizzazione. L’ultimo grande periodo storico è il Novecento, tutto ciò che è venuto dopo (i vari post-), come abbiamo detto, è durato poco. 

In realtà ci sono state diverse tendenze recenti significative, modi approfonditi e strutturati di affrontare il digitale, per esempio. Tutto questo però non ha portato a un cambio di paradigma assoluto come avvenne all’inizio del Novecento. Il cambiamento assoluto non c’era stato nemmeno con le successive rivoluzioni parziali, per quanto non minori, (si pensi alle Neoavanguardie negli anni Settanta). Non è sbagliato suddividere la storia dell’arte in periodi, però è importante non sopravvalutare l’intensità del cambiamento. Se le rivoluzioni di adesso sono provvisorie, minori e parziali è meglio tenere ancora presente anche le categorie precedenti.

Ci vuole forse un po’ di lungimiranza.

No, ci vuole l’atteggiamento che ho riassunto in nobiltà d’intenti e consapevolezza perché le rivoluzioni siano efficaci.

Tra le opere che si vedono in mostra si può notare una certa impronta politica, penso ad esempio ai dipinti di Andrea Mirabelli.

Tutta la mostra è strutturata sostanzialmente su due filoni: l’eredità del Novecento estetica e quella politica. Convivono spunti interni al discorso artistico e spunti relativi alla Storia (e spesso le due cose si fondono, il che è fondamentale).

Cosa può insegnare una mostra come questa oggi?

Insegnare mi sembrerebbe troppo, diciamo che quello che si può ricavare da questa mostra è prima di tutto il suo contenuto concreto, l’importanza di certi temi e di certi atteggiamenti estetici. E poi, soprattutto, l’importanza di avere categorie condivise che reggono la società e la cultura in un dato momento storico. E poi, l’esposizione testimonia l’importanza di un approccio “alto” che però non escluda la forma, l’ironia e l’impatto estetico.

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