Ci troviamo a scrivere di Homo Faber partendo dal presupposto che per noi si tratta di una mostra atipica, di un’incursione nel mondo dell’artigianato che, seppure ben conosciamo, di solito non entra nei nostri radar di narratori del contemporaneo. In questo caso però vogliamo fare un’eccezione, perché comunque di eccezione si tratta, quando si guarda a questa colossale macchina che si mette in modo ormai da anni all’interno degli articolati e variegati spazi della Fondazione Cini, nell’isola di San Giorgio a Venezia.
Un mese in tutto, un tempo che si potrebbe considerare breve se paragonato alle energie in campo. Un riverbero urbano con Homo Faber in città e biglietti quasi tutti già prenotati per l’intera durata dell’esposizione, con una contingentazione anche degli accrediti stampa a cui non si è poi così abituati.
Centinaia di lavori in esposizione, ambientazioni di diverso tipo per cui non sembra si sia badato a spese negli allestimenti. Alcune sale obiettivamente immersive, altre più bulimiche nell’affastellamento dei pezzi.
Un evento che vuole un file rouge, “The journey of Life”, ammiccando in qualche modo alla tematicità dei concept delle mostre d’arte, per far risultare più organica e comprensibile la profilazione dei manufatti.
Non abbiamo grandi pretese rispetto al disegno generale, ci aspettiamo di vedere bellezza, sappiamo che troveremo pezzi di amici che sono di alto artigianato artistico e in effetti li troviamo immersi nelle grandi tavolate e tra le teche in vetro messe in risalto da piccolissimi faretti direzionali. Il percorso è serrato come la vita, c’è bisogno di traghettatori che indichino costantemente quale strada imboccare, mentre ci si perde nella complessità prospettica dei singoli lavori proposti.
Cerchiamo di captare i rumors che circolano in città in questi giorni. Da un lato si parla di una mostra così sfarzosa da non essere poi tanto in linea con i tempi, in una contemporaneità che ha ormai introiettato la necessitò di riciclare e mettere a valore anche un approccio ambientalista alla produzione. C’è chi mette in risalto quanto attraverso Homo Faber si possano esplorare i meandri di un meraviglioso giardino privato che, durante l’anno, è precluso al pubblico. Guardandola da un altro punto di vista è vero anche che alcune delle più belle sale della Fondazione sono quasi completamente coperte per essere riallestite da capo a piedi. Prestando orecchio al mondo dell’artigianato sembra che ci sia un desiderio massivo di attingere al mercato del lusso, che comunque rimane una nicchia dentro cui non tutti possono trovare dimora, mentre rimangono scoperti completamente aspetti legati all’ambiente, alla cultura e alla sostenibilità, tutti temi cari al mondo odierno e comunque non privi di mercato.
Dal nostro punto di vista Homo Faber è una grandiosa mostra di artigianato che ha voluto mettere in campo forze non scontate in questo ambito. Vari dei nomi che leggiamo nelle pur criptiche didascalie rimandano ad artisti che hanno un rapporto privilegiato con la materia. Se dovessimo giudicare tutto l’espositivo con gli occhi dell’arte allora sì, le imperfezioni sarebbero numerosissime e salterebbero agli occhi, però ci rendiamo perfettamente conto che generalmente questo tipo di settore viene valorizzato quasi esclusivamente attraverso fiere e operazioni economiche guidate da associazioni di categoria. In questo caso si legge una direzione artistica non solo nella selezione dei soggetti coinvolti ma anche nella costruzione del disegno generale, che vede intrecciarsi un quantità non indifferente di livelli e proposte.
Durante il Talk a cui abbiamo preso parte organizzato da ArtFrame sul tema del confronto Arte/Artigianato quello che emerso nelle riflessioni dei partecipanti è stata una grande attenzione e curiosità nei confronti di due ambienti che hanno bisogno, sì, di essere costantemente ridefiniti e risemantizzati per non perdere l’aderenza alle proprie rispettive identità, però si è soprattutto profilato il desiderio di sviscerare e approfondire una tematica importante e densa di implicazioni. In una società in cui le nostre funzioni tattili principali si limitano a due dita in opposizione su pochi centimetri quadrati di uno schermo, il saper fare diventa un’operazione contro corrente e rivoluzionaria.