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Lento, violento. Dentro l’opera di Giulia Cenci

© photo ElaBialkowskaOKNOstudio
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 In occasione della settima edizione del Future Generation Art Prize, il Pinchukartcenter di Kiev presenta una mostra dei 21 artisti selezionati. Istituito nel 2010 dalla Fondazione Victor Pinchuk, il premio si distingue per la sua apertura a talenti emergenti di tutto il mondo. Tra i candidati di quest’anno spicca l’artista italiana Giulia Cenci.

Giulia Cenci, nata a Cortona nel 1988, si è diplomata nel 2012 all’Accademia di belle arti di Bologna e ha conseguito un master alla St. Joost Academy di Den Bosch in Olanda. Vive tra la Toscana e Amsterdam, due luoghi che ispirano la sua arte. Nel 2022 ha partecipato alla Biennale di Venezia e ha ricevuto il 21esimo Premio Cairo. Nelle sue opere, fonde e modella corpi frammentati, residui industriali associati con materie organiche per creare composizioni site-specific, sculture e installazioni immersive.

Quale è la tua visione della realtà? Quale rapporto c’è nelle tue opere tra natura e tecnologia?

Trovo la contemporaneità un luogo pieno di contraddizioni, facile per noi occidentali da molti punti di vista eppure estremamente difficile da capire. Viviamo un’era di filtri e dispositivi che in qualche modo ci separano da molte cose e dinamiche per me anche importanti, eppure ci mettono nella condizione di conoscere (forse in modo superficiale?) cose da noi lontanissime. Onestamente non so che rapporto ho con la realtà, ma so che queste sono domande che mi pongo spesso.

Nelle tue opere è chiaro il rifiuto verso il capitalismo, insito anche nel riutilizzo di materiali ‘scartati’. Tema attuale, che si lega anche agli effetti del cambiamento climatico, e che tu stessa hai trattato in maniera diretta e spiazzante, come in dead dance alla Biennale 2022. Che  emozione vuoi scaturire nell’osservatore? Che percezione vuoi che abbiano gli spettatori verso la natura? Che significato hanno i materiali utilizzati?

Io non penso mai a cosa debbano provare o sentire gli altri quando lavoro ad un’opera. Il lavoro è un modo autonomo di concepire ed interrogarsi, ma credo che non sia né una risposta né un’affermazione, tanto meno una ragione da imporre ad un pubblico. Mi piace pensare che le opere lascino estrema libertà sia a chi le fa che a chi le fruisce: non c’è un tempo determinato, una durata, non serve niente di difficile da reperire per fruirle. Sono lì e si manifestano, è libero arbitrio dello spettatore capire se può o non può sentire qualcosa. I materiali significano quello che sono, e nelle loro composizioni, nelle loro vite (molto spesso i materiali che uso sono di seconda generazione), si insidia tutto quello che sono, sono stati e che contengono. A volte erano cose e nonostante il loro utilizzo sia terminato, le penso come materia in divenire. Questa instabilità mi è sufficiente per lavorare.

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In molti autori classici è presente il rapporto uomo-natura: qualcuno ti ha ispirato maggiormente?

Credo che l’uomo sia un essere naturale. Non mi rivolgo ad autori che si interrogano più di tanto sul rapporto uomo-natura poiché sarebbe come parlare di un rapporto natura-natura. Per me i prodotti dell’essere umano sono tali e quali a quelli di un lupo o di un albero: sono frutti e strumenti, rifugi, nidi, armi. Ogni animale ha il suo, e per questo mi sembra normale utilizzarli in senso orizzontale senza separare l’umanità dal suo contesto.

In secondary forest,  esposta alla High Line di New York fino a marzo 2025, parli di distruzione e rigenerazione. Come riesci a evidenziare questo concetto? Quanto l’utilizzo dei materiali è determinante per esprimerlo? Che ruolo ha lo spettatore all’interno dell’opera?

In secondary forest parti di automobili in alluminio sono state fuse e per generare nuove forme: anatomiche, vegetali e simili a manichini di lupi e umani. Ognuno di questi nuovi prototipi, è stato assemblato intorno ad una vecchia griglia in metallo che funge da contenitore/delimitatore di questo essere informe che produce varie figure e situazioni, ponendole anche in diversi piani. Nell’opera si genera, in fondo, un’unica massa di vari corpi, senza una logica vera di distinzione, ad eccezione della struttura in metallo che è evidentemente inorganica nella forma, rispetto al resto. Ogni elemento appare fortemente interconnesso a ciò che lo circonda ed anche la struttura finisce per diventare parte delle figure e perdere la sua rigidità. Ho provato a lavorare a figure che non avessero pose troppo statiche, sia che fossero dormienti o in procinto di crescere, hanno un aspetto che le colloca nella logica del divenire.

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Le vicende contemporanee, come i conflitti che scandiscono anche la nostra quotidianità, hanno impattato sulla tua opera? Se sì, in che modo?

La violenza mi ha interessato sempre molto, trovo la nostra specie particolarmente dedita a questa pratica, anche senza un fine legato alla sopravvivenza, come pochi altri nel nostro pianeta. La prima volta che ho pensato di lavorare su un pensiero più ampio di conflitto è stato durante il MAXXI BVLGARI PRIZE con lento-violento (2020); forse perché ancora non eravamo stati colpiti dalla pandemia, mentre ci lavoravo, mi era sembrato necessario ricordarci che non riusciamo a stare senza conflitto. In qualche modo è l’incubo più grande e latente, presente dietro l’angolo, ed un conflitto vero e proprio non è nulla rispetto alla sua preparazione, che costituisce forse l’unico step in cui ogni civile potrebbe agire e decidere, plasmando la società, prendendo una posizione, creando i presupposti per un terreno diverso. Una guerra scoppiata invece non da molte occasioni. Quando si ammazza è difficile essere nel giusto, per quanto sia ovviamente necessario difendersi.  Penso che ogni umano, in cuor suo, sia consapevole che attraverserà un conflitto nella sua vita, e se non gli succederà sarà molto fortunato. Adesso siamo circondati, i nostri amici di Kiev la vivono ogni giorno, e purtroppo questo non mi stupisce.

In questo particolare momento storico che significato ha per te essere stata selezionata per concorrere alla settima edizione del Future Generation Art Prize, promosso dal PinchukArtCentre di Kiev?

É stato molto impegnativo e molto emozionante essere in contatto con loro. E personalmente, la specificità di ogni luogo riesce a muovermi sensazioni diverse. Pensare di lavorare in una città che ha passato e sta passando molto crea inevitabilmente un grande senso di responsabilità. Avevo diverse  suggestioni  per il lavoro ed infine con il team curatoriale abbiamo deciso di lavorare su un’evoluzione di lento-violento per l’appunto. L’opera è pensata per essere un’installazione ambientale, in cui il visitatore è il soggetto del lavoro. L’installazione inizia con una sorta di strana macchina-oggetto composto da svariati frammenti della produzione umana, rottami legati al concetto di progresso, ma che hanno perso la loro funzione originaria. In un secondo momento lo spazio risulta capovolto; la macchina sembra trasformarsi da potenziale arma a contenitore per lo spettatore, che si trova accerchiato da una griglia di elementi composti da materiale organico umano e vegetale, ma fusi in alluminio.

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