A Lugano, la collezione di Giancarlo e Danna Olgiati provoca riflessioni sull’arte contemporanea con la mostra “Yves Klein e Arman. Le Vide et Le Plein”, a cura di Bruno Corà, un serrato vis-à-vis che apre la stagione espositiva 2024 con un progetto unico, anche nell’allestimento ideato e firmato da Mario Botta, mettendo a confronto per la prima volta le opere e le opposte poetiche di due giganti del movimento del Nouveau Réalisme, teorizzato da Pierre Restany negli anni Sessanta.
L’esposizione, basata sull’antinomia estetica e poetica del “vuoto” e del “pieno”, prende forma dall’idea di mettere a confronto due mostre parigine: Le Vide di Klein del 1958 nella galleria parigina di Iris Clert in Saint-Germain, e due anni più tardi Le Plein dell’amico Arman. Il primo reinterpreta la spiritualità in maniera laica, il secondo apre riflessioni sul consumismo quantitativo e il nuovo rito della società dei consumi.
Negli spazi sotterranei della Collezione Olgiati, un ex garage, entrerete in una navata centrale, sui cui lati spiccano absidi ottagonali in cui sono conservati, come reliquie sacre, a sinistra le opere di Klein, e a destra quelle di Arman, fruibili da diversi punti di vista e sempre in dialogo tra loro, in un crescendo temporale negli anni in cui si stavano definendo le ricerche del movimento Nouveau Réalisme.
Botta ha inscenato il confronto di due artisti nati a Nizza lo stesso anno, il 1928, amici uniti dalla frequentazione della stessa scuola di judo, appassionati di jazz e di esoterismo, in due percorsi distinti e paralleli negli spazi poligonali, permettendo al visitatore di immergersi nei diversi linguaggi complementari di Klein e di Arman.
Il primo è uno studioso di lingue orientali, della filosofia Zen, attratto dall’assoluto e da orizzonti spirituali che ha tradotto visivamente con il celebre monocromo blu, brevettato con il nome di International Klein Blue (IKB), un processo di sottrazione fino a trasformare il vuoto, l’assenza di immagini, in una categoria estetica, come condizione meditativa dell’arte. Armand Pierre Fernandez, alias Arman, collezionista convulsivo e seriale di oggetti e di arte africana, è ossessionato dall’accumulo, dall’invasione edonistica degli oggetti del quotidiano, oscillando tra fascinazione e critica degli oggetti di consumo ammucchiati dentro contenitori di plexiglass o teche di legno (Accumulazioni).
Il versante dedicato a Klein, scomparso prematuramente a 34 anni, all’apice della sua carriera nel 1962, si apre con un ciclo di nove monocromi (gialli, rosa, bianchi, oro e blu) mozzafiato, e nelle altre sale seguono opere che materializzano la sua idea di vuoto e tensioni verso l’assoluto, dalle Cosmogonie, alle Antropometrie fino alle Peinture de Feu sans titre del 1961.
Arman, morto nel 2005, risponde alle suggestioni del vuoto con opere piene di oggetti e accumulazioni apparentemente caotiche di materiali diversi, anche di scarto, seguendo un raffinato processo di decostruzione e ricomposizione.
Klein ha soggiornato in Giappone, assimilato la cultura orientale e ha vissuto l’arte come una ricerca meditativa di elevazione spirituale; è immortale per aver tradotto visivamente l’immateriale, il concetto di vuoto, con il monocromo blu oltremare, di una tonalità brillante inconfondibile, come sigillo dell’infinito. “Era un uomo di fede, nel suo processo creativo sentiva Dio in una sorta di collaborazione costante”, fede, come ricorda Rotraut Klein-Moquay, vedova dell’artista.
Giancarlo Olgiati nel 1986 ha acquistato un monocromo rosso di Klein dall’amico Arman, già di proprietà di Andy Warhol, e questa mostra a Lugano, luogo di transizione e contaminazione culturale per eccellenza, inscena la passione per l’arte contemporanea degli Olgiati e in particolare l’amicizia di Giancarlo con Arman, durata fino alla sua morte.
Le Vide di Klein del 1958 presenta una sala vuota adatta per la celebrazione del tè giapponese, si palesa l’assenza, mentre due anni dopo con Le Plein Arman riempie la stessa sala di oggetti di scarto alla rinfusa, vecchi mobili e detriti vari che rappresentano la nuova società dei consumi. Uno ha bisogno dell’altro per definirsi nello spazio e nel tempo, e per definire nuovi orientamenti di ricerca, senza perdersi mai di vista, e capire dove inizia il vuoto e finisce il pieno o viceversa. In questa mostra è un gioco concettuale complesso ma affascinante, perché grazie al magistrale allestimento di Botta, tutto si snoda in una serie di rimandi alle evoluzioni della storia dell’arte contemporanea dai plurimi significati, in cui i materiali stessi diventano materia dell’arte ed entità poetiche.
Visitando la mostra di due amici che non hanno lavorato insieme direttamente ma che si scambiano codici in un contraddittorio stimolante, capiamo cogliendo con lo sguardo attento le compenetrazioni tra le opere leggere come l’aria di Klein e le invadenti accumulazioni di Arman. Così, tra le spugne blu, sospese nel vuoto, le danzanti antropometrie impresse sulla carta dai corpi nudi delle modelle dipinte di blu, fino alle ultime Cosmogonie, dove il blu svaporato dalla pioggia tende all’evanescenza, s’intrecciano in crescendo visivo dinamico con le inquietanti mani di bambole, rasoi, lampadine usate, i violoncelli scomposti e altri materiali di Arman, in questa cattedrale della modernità, dove tutto si impagina nello spazio come le note in uno spartito musicale.
Di Arman non si dimenticano le opere all’inchiostro, le impronte di timbri, le carrozzerie Renault saldate, in cui è evidente la matrice futurista di Arman, e il gioco tra loro di confrontarsi continua a distanza con il Premier portrait-robot d’Yves Klein, un monocromo in cui Arman ritrae Klein sotto forma di un’attorcigliata accumulazione di indumenti, carte, pagine di saggi del filosofo Gaston Bachelard, un frammento di Tintin, la casacca da judoka e la cintura nera da maestro, IV dan. Klein risponde con il calco del corpo di Arman patinato di blu oltremare, e inscrive nell’infinito se stesso e l’amico fraterno.