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Intervista a Susanna Nicchiarelli

Susanna Nicchiarelli nasce a Roma nel 1975. Arriva al cinema quando è ormai una donna, con una laurea in Filosofia e un dottorato di ricerca in tasca. Entra, poi, al Centro sperimentale per merito, la sua non è una famiglia d’artisti: madre insegnante e padre ingegnere. Ha dovuto lottare e fare la sua gavetta prima di entrare nella scuderia della Fandango, la casa di produzione cinematografica diretta da Domenico Procacci, al momento, numero uno tra i produttori indipendenti che il cinema italiano può annoverare.  Firma il suo primo film, “Cosmonauta”, nel 2009 e nel 2012 presenta, al settimo festival internazionale del film di Roma, all’interno di Prospettiva italia, il suo secondo lavoro, “La scoperta dell’alba”. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Walter Veltroni e dal 10 gennaio 2013 è nelle sale in 30 copie. La vedi e ti accorgi di quanto i registi siano anche persone normali, con i piedi per terra. E questo ti fa tirare un enorme sospiro di sollievo. “La scoperta dell’alba” è stato accolto bene al festival di Roma, la stampa non si è profusa in lunghi applausi, ma il pubblico ha apprezzato. Sullo sfondo c’è la storia di due donne, due sorelle, cresciute troppo in fretta per apprezzare la gioia dell’infanzia, segnate dalla prematura scomparsa del padre, docente universitario, in un periodo storico-sociale tra i più complessi, dove i buoni stavano da una parte e i cattivi dall’altra: gli anni Settanta. Magicamente, nella casa al mare, ormai chiusa da anni, un telefono torna a squillare e riporta indietro nel tempo Caterina (Margherita Buy) e Barbara (Susanna Nicchiarelli), donne ormai adulte, ma adulte solo per metà.  Quell’apparecchio diventa lo strumento per cercare di comprendere finalmente un passato che è rimasto lì a tediare la loro vita. È grazie proprio a quel telefono che le protagoniste ricostruiranno il loro vissuto e troveranno risposte ai tanti perché mai spiegati…

Susanna, questo è il tuo secondo film, te la sei presa con comodo…
«Ho sempre amato molto il cinema, ne ero affascinata fin da ragazzina, ma la mia famiglia non era dell’ambiente ed io ho dovuto fare il mio percorso prima di capire davvero che ero tagliata per questo. Ho studiato filosofia all’università, ma sentivo di aver bisogno di qualcosa di “pratico”. In parte mi vergognavo anche un po’, di fronte ai miei genitori, di questa passione che nutrivo. Quello che mi diede molta libertà, anche per analizzarmi, fu il dottorato di ricerca. Allora percepivo uno stipendio tutto mio, non gravavo sulle spalle della mia famiglia e potevo, quindi, dedicarmi anche al cinema. Quasi per gioco, dopo un periodo negli Stati Uniti, inviai alcuni cortometraggi al Centro Sperimentale. Mi presero, con mia profonda meraviglia. Terminai il dottorato con una tesi in estetica del cinema. Da allora inizia la mia attività».

E alla Fandango come ci sei arrivata? È una delle migliori case di produzione italiana…
«Da tempo lavoravo con Nanni Moretti, gli facevo da assistente, ho realizzato per lui anche dei documentari da inserire nelle riedizioni di molti suoi film in dvd. Nel 2001, quando stava lavorando a “Caos Calmo”, conobbi la Fandango e decisi di proporgli successivamente il soggetto che avevo scritto: “Cosmonauta”. Gli piacque e nel 2009 il film fu presentato a Venezia nella sezione Contro campo. Da allora lavoro con loro».

Come sei arrivata a fare un film sul romanzo di Walter Veltroni?
«Cercavamo un soggetto fantastico, ne avevamo preso in considerazione diversi, poi mi consigliarono “La scoperta dell’alba”, lo lessi e mi accorsi che aveva tutte le potenzialità per la resa cinematografica, si sposava con l’obiettivo che ci eravamo dati, che mi ero data: raccontare una storia che dividesse la sua natura in due parti. Da una parte la provocazione di un soggetto fantastico, dall’altra la potenzialità di una storia molto italiana, fatta di sentimenti umani, di rapporti relazionali genitori figli, in un contesto storico che mi apparteneva, seppur in parte, come appunto il periodo degli anni Settanta, delle Brigate Rosse».

Molti registi ci pensano due volte prima di firmare un film tratto da un’opera letteraria. Può essere molto controproducente, perché c’è un confronto al quale devi sottostare e che non sempre verte a tuo favore.
«Il discorso è che devi avere anche uno scrittore disposto a mettersi in discussione con te. Veltroni, oltre a essere un personaggio, è uno scrittore molto apprezzato, è un autore seguito e questo mi ha dato forza. Lo devo anche ringraziare perché non era così scontato che ci vendesse i diritti dell’opera per fare il film. Quando gli feci leggere il soggetto, tratto dal romanzo – che in parte avevo anche modificato perché avevo cambiato il protagonista in una donna e tagliato molti volti che, invece, nel libro avevano ampio respiro – lui si appassionò, capendo l’intenzione che c’era dietro».

Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera, nei giorni del festival di Roma, etichettò il tuo lavoro come un film fanta-drammatico. Ti piace come etichetta?
«Non ho pensato tanto a quale sarebbe stato il genere che avrebbe descritto il film, quanto piuttosto alle emozioni che, proprio con il film, avrei suscitato. Ho chiesto al pubblico un impegno importante e cioè quello di credere a un’evidente finzione. Un telefono magico che ti riporta indietro nel tempo e ti fa conoscere un passato che da ragazzina non sei riuscita a decifrare, ma che ha segnato profondamente la tua crescita e la tua vita».

Il libro di Veltroni, e di conseguenza il film, ha come contesto gli anni di piombo. Credi che la nostra società sia ancora nostalgicamente legata a quel periodo? Che si tenti di spiegare, o almeno cercare di farlo, quegl’anni mai svelati e mai capiti fino in fondo?
«La volontà è stata quella di raccontare come questa storia sia, in generale, una storia che parla del passato e del rapporto che tutti gli adulti hanno con il proprio vissuto. Nello specifico parla di una determinata generazione che è nata proprio in quel contesto lì, non si poteva scappare da questo. C’era una specifica ambientazione, ma non era quella il soggetto del lavoro. Il mio intento era quello di svelare il rapporto che tutti abbiamo con la nostra infanzia, sviluppare una riflessione sul rapporto padri-figli, sull’identità personale e collettiva».

Sempre Mereghetti ha trovato che proprio questo ripensamento degli anni di piombo, seppur come dici tu cornice del lavoro, soffochi il film piuttosto che farlo crescere…
«Secondo me no, il film può avere altri difetti, ma la cosa che dà profondità è proprio il rapporto con il passato. Nelle storie private di tutti interviene sempre la storia con la “s” maiuscola. Ripeto, quello era il contesto della storia umana delle due protagoniste, che è il vero soggetto del film. Non era mia intenzione fare il film sugli anni Settanta e inserisci dentro una storia. Esattamente il contrario».

Che differenza hai sentito tra lo stare dietro e davanti la macchina da presa? Interpreti la sorella minore della Buy.
«È sempre una grande emozione stare sia davanti, che dietro la macchina. C’ero anch’io in questo film da piccola, c’erano i miei ricordi nel personaggio che ho interpretato. Ho cercato di trovare anche delle bambine molto simili a quelle che eravamo io e Margherita da piccole ed è stata un’emozione molto intensa vedere quanto mi fossi avvicinata. La stessa che provai ai tempi di Cosmonauta, quando, anche lì, interpretai una parte nel film. A me piace questa confusione di “ruoli” perché completa e arricchisce il lavoro, ti aiuta anche a migliore il tuo punto di vista, ad allargare la visuale».

Con la scelta di Margherita Buy e Sergio Rubini ti sei assicurata… è una coppia esplosiva garantisce un minimo di successo al film.
«Non è stato per interesse, erano i personaggi, il modo in cui li avevo pensati nella mente a rispondere alle caratteristiche degli attori, alla loro capacità di resa. Volevo una donna che non fosse cresciuta completamente con un rapporto molto infantile anche con il proprio compagno, che non si fosse costruita la famiglia perfetto-borghese da cui proveniva, piena di crepe tra l’altro. Una coppia di attori come Rubini e la Buy riuscivano a dare profondità al mio progetto».

Perché presentarlo proprio al festival di Roma? Non poteva semplicemente uscire nelle sale?
«I film possono uscire benissimo anche senza un festival alle spalle, soprattutto quando hai il cast e un romanzo forte che ti sostiene. Il mio non è un film che aveva bisogno del festival, ma mi piaceva l’idea di presentarlo in un contesto del genere. I festival sono sempre occasioni utili per fotografare la situazione del cinema in quel determinato momento, fotografano lo stato attuale. Rischi anche molto, perché se il film lo fai uscire nelle sale, senza nessuna rassegna dietro, male che ti va è una stroncatura sul giornale e il flop al botteghino, al festival invece rischi di prendere i fischi quelli veri, quelli plateali che ti distruggono. Quindi non credo che i festival in generale sia una polizza sulla vita, al contrario».

Il festival di Roma è stato accompagnato da mille polemiche per la direzione di Marco Müller. Diciamo che dell’organizzazione non hanno salvato nulla, tu che l’hai vissuto da protagonista che giudizio puoi dare?
«La Roma di Müller è un po’ la sua Venezia, quella che ha fatto per tanti anni. Cambiano i fattori, ma gli ingredienti restano un po’ gli stessi, è naturale. Ero sicura che ci fosse molto da vedere e su cui discutere, forse anche troppo, e così è stato. Ma non mi va di giudicare, non è il mio compito. Io sono una regista non un’organizzatrice di festival. Di sicuro il cinema ha bisogno di feste, di festival, di vita. E il festival di Roma è stato vita per il cinema. Questo è l’importante».

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