Le Gallerie degli Uffizi di Firenze hanno presentato un nuovo sistema di illuminazione che cambia volto alla Sala della Niobe. Al contempo, il Museo sceglie di rimettere al centro della stanza una statua equestre il cui legame con le sculture che ha attorno è davvero particolare.
Quanto potevano essere capricciosi e spietati gli dei greci? Sono infinite le storie che dettagliano le meschinità di cui erano capaci Zeus e compagnia, disposti a trasformazioni incredibili e tranelli malefici pur di ottenere i propri scopi. Perlopiù del tutto personali e a discapito di qualche sventurato uomo. In particolare, ciò che più di tutto non sopportavano del nostro malcapitato genere era la tracotanza, l’hybris, il delirio di onnipotenza che conduce un mortale a sentirsi all’altezza di una divinità. O almeno di sfidarla. Uno sgarbo ontologico da punire con la più severa delle conseguenze. In una lettura sociologica del mito, una sorta di deterrente alla ribellione, un remind a placare gli istinti che ci spingono a pensarci più di quel che siamo, a oltraggiare chi è più potente di noi.
Di tale crimine, ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi, si era macchiata anche Niobe. Madre di sette robusti figli maschi e di sette bellissime figlie femmine, il suo reato imperdonabile fu quello di vantarsi di essere più feconda di Leto. Superbia che arrivò fino alle orecchie della Titanide, che inviò i figli Apollo e Artemide a eliminare la discendenza di cui tanto andava fiera. Lui si occupò dei maschi, lei delle femmine. La scena, figurandosela, è potentissima: due dei scendono dal cielo a cavallo e assassinano quattordici persone trafiggendole con arco e frecce, solo per punirne una. Possiamo vederla Niobe, circondata dai cadaveri sanguinanti dei suoi figli, sul prato verde dove poco prima si godevano il sole e l’aria fresca. Troppo per una donna, troppo per una madre, che riconosce la sua colpa e chiede a Zeus la clemenza di trasformarla in pietra insieme alle sue lacrime inconsolabili.
Ma il dio non fu l’unico a immortalarne la forma. Diversi scultori si cimentarono nel racconto del mito. Tra questi un artista tardo ellenistico, che realizzò 13 opere in cui dettagliò la tragica vicenda. Il gruppo scultoreo fu rinvenuto a Roma nei primi mesi del 1583 nella vigna appartenuta a Gabriele e Tomaso Tommasini, posta a breve distanza da San Giovanni in Laterano. A stupire non era solo l’eccellente stato conservativo, ma anche l’evocativa teatralità con cui le sculture dialogavano tra loro, rimettendo in scena il drammatico racconto ovidiano. Aspetto che convinse il cardinale Ferdinando I de’ Medici, grande appassionato di antichità, a esporle scenograficamente nel giardino della sua villa a Roma sul Pincio, oggi sede dell’Accademia di Francia.
Con sensibilità più letteraria che filosofica, più lirica che filologica, scelse di porvi al centro una grande statua equina, rinvenuta in quegli stessi decenni alla foce del Tevere. Niobe i suoi figli, appena uccisi o colti nel momento di morire, osservavano quindi al centro del giardino il cavallo simbolo dei loro assassini. Un allestimento particolarmente evocativo che persuase il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, nel 1770, a portarli a Firenze e pensare per loro uno spazio particolare. La sala destinata ad accoglierli, frutto di complessi lavori di ristrutturazione e di allestimento del grande ambiente situato nel Terzo Corridoio delle Gallerie degli Uffizi, denominato all’epoca “lo Stanzone”, fu inaugurata il 20 febbraio del 1780. Accanto agli architetti Zanobi del Rosso prima e Gaspare Maria Paoletti poi, lavorarono Giuseppe del Moro, che realizzò la copertura a cassettoni decorata con rosoni dorati, i fratelli Grato e Giocondo Albertolli per gli stucchi, Tommaso Gherardini per i cammei ed i motivi a grottesca lungo gli strombi delle finestre ed il pittore Filippo Lucci che dipinse le basi delle statue. Nel 1781 Francesco Carradori plasmò i rilievi in stucco delle 4 lunette della sala, nelle quali troviamo raffigurati, fra gli altri, Apollo e Artemide saettanti.
Uno splendido esempio di opera neoclassica che, a dire il vero, vide l’aggiunta del cavallo in marmo solo all’inizio del secolo scorso, poi sostituito nel 2006 dal sarcofago detto Del Generale. In deposito da quel momento, l’antica scultura è stata ora restaurata e ricollocata al centro del celebre spazio al secondo piano del museo, quasi una sala regia per la sfarzosità delle decorazioni. Sostanzialmente un unicum nella Galleria, che il direttore Simone Verde ha scelto di rinnovare dotandola di un nuovo e articolato impianto di illuminazione. Un sistema per la prima volta studiato appositamente per esaltare in modo diretto l’intensità dei colori delle enormi tele Sei e Settecentesche di Rubens, Suttermans e Grisoni che circondano il gruppo dei Nibiodi, e arricchendo allo stesso tempo di una lucentezza finora mai vista gli elementi architettonici e le decorazioni dorate del fastoso soffitto.
Inoltre, dopo quasi trent’anni dalla loro installazione, sono state tolte le tende alle finestre: a sostituirle, pellicole di protezione dei raggi ultravioletti, che consentono di far entrare nella stanza anche la luce naturale, ed ai visitatori di ammirare le vedute del centro di Firenze, nell’ottica del generale riaprirsi del museo alla città. Ma, forse, più di tutto colpisce la scelta di natura antiquaria, anche se forse, in fondo, è soprattutto poetica, di rimettere al centro della scena la statua equestre. Un tributo al loro allestimento originale, certo, ma ancor di più al mito, al racconto, alla storia la cui potenza drammatica anima le statue che ricordano il dolore di pietra a cui Niobe si è condannata.