
Vi è mai capitato di farvi un giro, in estate, in una di quelle spiagge libere dove piante ed erbe naturali sono lasciate crescere e disporsi senza alcun intervento o cura umana? Se vi è capitato, come molto probabile, e se vi capiterà l’estate a venire, fate caso a una delle più comuni piante che nascono spontanee su molte coste italiane. Si chiama Ammophila Arenaria e a vederla così sembra un’erbaccia qualunque. Invece, a uno sguardo più attento, l’Ammophila Arenaria svolge importanti e preziose funzioni legate al paesaggio e all’ecosistema in cui nasce e cresce. E, soprattutto, ha dei retroscena simbolici e poetici inaspettati. A ricordarli e metterli in luce sono le opere di Laura Pugno, in mostra insieme con quelle di Lucia Veronesi a Torino, da Simondi, fino al prossimo 28 giugno.
Laura Pugno e Lucia Veronesi lavorano entrambe su tematiche di carattere ecologico, in un confronto intenso con argomenti e studi scientifici approfonditi, poi rielaborati creativamente.
Le due artiste si sono conosciute a Bibione, dove entrambe svolgevano una residenza. Su quella costa dell’Adriatico, Laura Pugno è venuta in contatto appunto con l’Ammophila Arenaria. Ha scoperto che si deve a lei la formazione delle dune di sabbia, grazie a un particolare meccanismo secondo cui la pianta si genera e cresce. In sostanza, la pianta raccoglie da sé la sabbia che le serve per vivere e mettere radici. Può farlo grazie a un agire naturale, ma in realtà sofisticatissimo (su cui non oso addentrarmi), e anche grazie alla presenza di altre piante, che spontaneamente le nascono accanto e che, con il loro modo di mettere radici e fiorire, l’aiutano ad aprirsi e germogliare. Tutto questo avviene, però, in un contesto naturale spesso messo gravemente in crisi dall’intervento non armonico dell’uomo, che ha purtroppo turbato l’ecosistema dei luoghi.

Le opere di Laura Pugno in mostra si compongono di una serie di fotografie che riprendono la situazione della spiaggia bibionese, restituendo prima lo scenario complessivo, e poi riprendendo da vicino la situazione compromessa nell’equilibrio tra sabbia e argilla. Ci sono poi alcune opere su carta vetrata (in inglese sandpaper, che quindi ha a che fare con la sabbia) che evocano l’Ammophila e le piante che le crescono accanto, riproponendone le forme rendendole simili a sintetici ideogrammi. Infine c’è un’installazione creata con un vaso su cui è riprodotto il profilo dell’Ammophila arenaria, ai cui lati sono praticati due buchi. Nel corso di una performace, l’artista versa della sabbia nel vaso, trasformandolo in una sorta di primitiva clessidra, da cui esce la sabbia che si deposita sul pavimento in due mucchi paralleli. Perché simile ad una clessidra, l’installazione evoca, così, anche il tema del tempo.
Le opere di Lucia Veronesi si concentrano, invece, su alcune piante estinte o in via di estinzione. Si tratta del Limonium catanese, della Psychotria ilocona e dello Hieracium Tolstoii (se scrivo correttamente… ma i romanzi russi non c’entrano!). Veronesi si è soffermata sugli studi di botanica che permettono di riportare in vita piante estinte da tempo attraverso gli antichi semi conservati negli erbari. Si tratta di un’operazione scientifica delicatissima, che ha anche un profondo significato simbolico e concettuale.

Dalle immagini delle piante estinte, l’artista crea, poi, una serie di lavori con tecniche diverse. In mostra sono esposti alcuni collages, ma anche dei quadri su tessuto, con sopra ricamati i nomi delle piante, ma in modo volutamente illeggibile. I ricami sono, inoltre, esposti dal retro, in modo da rendere ancora più sfuggente il significato delle parole che nominano le creature naturali non più esistenti. Infine, un’installazione di grandi dimensioni ed impatto ricorre a un gioco di contrasti tra inchiostri particolari, che reagiscono al calore, e luci riscaldanti. Le luci si accendono dietro la grande tela verticale, facendo apparire ora una pianta, ora un’altra. Il ritmo disegna, così, l’affacciarsi di una specie ed il suo scomparire, ma in una sorta di loop.
La cosa che più tocca chi guarda, in entrambe le artiste, è come il lavoro e la riflessione sulle piante si faccia simbolo e metafora di situazioni molto umane ed esistenzialmente rilevanti, con esiti poetici. Insieme all’aspetto di divulgazione scientifica, si apre, così, lo spazio per la riflessione, anche personale.
Viene in mente lo psichiatra e filosofo James Hillman, che ipotizzava una profonda relazione tra psiche umana e ambiente naturale, tanto da esprimersi in termini di ecologia del profondo e prendere spesso flora e fauna come esempi, secondo la sua tipica espressione, del “fare anima”.
La mostra s’intitola Forse domani. Il titolo è in sé una speranza. Forse domani le piante sofferenti torneranno a germogliare e fiorire come un tempo. E forse anche per noi, finalmente in armonia con loro, sarà così.














