
Per tre settimane, Catanzaro si è trasformata in un laboratorio diffuso. Dove l’arte performativa ha preso corpo tra palazzi storici, spazi dimenticati e nuovi attraversamenti urbani. “Performing Festival”, alla sua prima edizione, ha portato in città un fitto intreccio di presenze internazionali e giovani voci emergenti. Non una semplice rassegna, ma un terreno fertile di confronto, della ricerca e della sperimentazione.
Sotto la direzione scientifica di Simona Caramia, un gruppo di curatori ha infatti dato forma a un programma che intreccia politica e poesia, corpo e pensiero, intimità e collettività. In questa intervista, Caramia racconta il processo che ha portato alla nascita della rassegna, il dialogo tra artisti affermati e performer emergenti, il ruolo della formazione e la sfida di immaginare nuovi orizzonti per l’arte contemporanea. Un progetto che non si limita a osservare il mondo, ma invita a ripensarlo. Insieme.
Catanzaro è diventata per tre settimane un laboratorio internazionale. Come ha dialogato il festival con il contesto locale?
Catanzaro è stata il laboratorio di sperimentazione delle arti performative per tre settimane, per un totale di sedici performance, dodici talk e tre workshop. Che hanno visto la partecipazione di artisti come ORLAN, Basel Zaraa, Branko Miliskovic, Regina José Galindo, Daniela Ortiz, Nezaket Ekici, Ant Hampton, Elena Antoniou, Luana Perilli, Stivalaccio e di cinque giovanissimi emergenti provenienti da tutta Italia, ai quali si sono aggiunte tre studentesse dell’Accademia di Belle Arti della città. Le performance sono state ideate negli spazi cittadini, tra la villa comunale e i palazzi storici, In un percorso volto anche alla riscoperta di luoghi chiusi al pubblico da tempo.
Entrambe le sedi dell’ABA sono state sedi di incontri, aperte alla partecipazione attiva della comunità, sia nelle performance che nel dibattito pubblico.
Come avete selezionato gli artisti internazionali e le pratiche emergenti presenti in questa edizione? Cosa vi ha guidato in queste scelte?
La selezione degli artisti è stata il risultato di un lavoro attento e articolato, realizzato da un gruppo di docenti dell’Accademia di Catanzaro, a cui è stata affidata la curatela del festival, composto oltre che da me, da Andrea Belli, Simone Bergantini, Dobrila Denegri, Simona Gavioli, Sonia Golemme, e da Settimio Pisano, Direttore generale del Teatro Politeama, che ha curato le performance di Zaraa, Antoniou e Hampton. Abbiamo voluto costruire un programma articolato, che tenesse conto della pluralità delle prospettive che caratterizzano il linguaggio performativo. Con particolare attenzione alle questioni politiche e sociali. Artisti come Daniela Ortiz, che invita a riflettere sul ruolo della memoria, contro il potere manipolatorio dei totalitarismi, o come Basel Zaraa, che mostra gli orrori della guerra, le difficoltà della vita dei profughi, costretti a ricostruire la propria identità nella continua ricerca delle proprie radici, hanno permesso di esplorare altre forme di performatività, più intime o partecipative.
>La loro presenza, unitamente a quella dei giovani performer, più votati a estrinsecare con le loro azioni temi urgenti e vicini alle nuove generazioni come il cambiamento climatico. Ha offerto al pubblico e alla comunità accademica una mappatura complessa, capace di attivare domande più che dare risposte.
Qual è il “senso delle rovine” a cui si fa riferimento nel talk inaugurale? In che modo questa riflessione attraversa anche le performance e gli spazi scelti?
Da circa due anni, con Giacomo Costa, nella duplice veste di artista e docente dell’Accademia, stiamo portando avanti una ricerca – a tratti dialettica e antitetica – sul senso dei luoghi. Che si tradurrà a breve in una prima pubblicazione (Oligo editore, 2025). Questa riflessione è maggiormente sentita in alcuni territori caratterizzati da quelle ferite a fior di pelle, come edifici non-finiti, spesso a causa dell’abusivismo, come palazzi abbandonati o siti in rovina, per politiche culturali non lungimiranti, che attestano l’incuria della classe dirigenziale. Oltre a partecipare a convegni scientifici in Accademie e Università, con Giacomo abbiamo deciso di avviare un lavoro con gli studenti dei nostri corsi e anche con la comunità locale, traducendo le idee in pratiche di co-progettazione territoriale, tra collezione di patrimonio immateriale – ricordi e racconti dei catanzaresi su luoghi che non esistono più – e nuovi interventi – con la riqualificazione di alcuni edifici, attraverso performance e opere pubbliche – verso una biblioteca di memorie, che proverà a dare dignità e nuovo senso.

In un’epoca di crisi (ecologica, sociale, percettiva), che ruolo può avere la performance nell’attivare una cittadinanza critica?
Durante il suo talk, ORLAN ha detto che negli anni ha utilizzato vari linguaggi dell’arte, ma che ha destinato alla performance tutte le cose più importanti da dire. Ecco, credo che la performance sia il linguaggio più immediato e di più facile comprensione per testimoniare le urgenze del nostro tempo. Lavori come quelli di Regina José Galindo o di Nezaket Ekici sono importanti strumenti di consapevolezza. Hasta tu orilla (Galindo) mette a nudo il destino di morte che aleggia sui migranti che decidono di affrontare il viaggio per un futuro migliore. Book Tower (Ekici) ci ricorda che la cultura è una costruzione collettiva, a cui devono avere accesso tutti, a prescindere da fattori come età o genere, da gruppi sociali o da geografie di provenienza. Performance come queste ci riportano drammaticamente e fattivamente al presente, alla concretezza della vita, per la quale ogni giorno siamo chiamati a operare delle scelte, a essere parte dei processi.
Che tipo di dialogo o confronto si è creato tra artisti affermati e giovani emergenti all’interno del festival?
Il Festival ha avuto dei ritmi frenetici, richiedendo un vero e proprio tour de force, tuttavia non sono mancati momenti di confronto “a porte chiuse” tra gli artisti, momenti di scambio di visioni, che ci hanno arricchito umanamente e professionalmente. Tra tutti, credo che Branco Miliskovic e ORLAN siano stati gli artisti più generosi con i giovani, per i loro discorsi appassionati e impegnati. Basti pensare che ORLAN, dopo quattro ore di talk, moderato da Dobrila Denegri, ha trascorso l’intero pomeriggio a confrontarsi con un gruppo di allievi dell’ABA. Mentre la sera a cena ha impartito vere e proprie lezioni di vita a tutto il gruppo della Generazione Z.
Come si sviluppa il rapporto tra formazione artistica e produzione culturale in un progetto così ampio e ambizioso?
L’equilibrio tra formazione accademica e produzione artistica è stato l’alfa e l’omega di Performing Festival. Da un lato la necessità di alimentare la conoscenza negli studenti, dall’altro la voglia di fare ricerca, di sperimentare e di mettere in atto azioni che “cambiano il mondo”, per citare un interessante testo di Carla Subrizi (Postmedia Books, 2012). La centralità dell’arte performativa, quale cardine del progetto presentato a ottobre 2023 al bando pubblico indetto dal Ministero dell’Università e della Ricerca, vuole supplire a un vuoto formativo. Poiché manca un indirizzo accademico dedicato interamente a performance, body art o happening. Al netto di questa assenza, con Performing abbiamo voluto che studentesse e studenti di tutta Italia potessero acquisire nuove consapevolezze. Attraverso l’educazione al corpo e del corpo, non solo in modo teorico, ma anche pratico e proattivo. Nella speranza di stimolare all’avvio di un percorso formativo pubblico in arti performative, di I e II livello, nelle accademie italiane.
Il metaverso è presentato come nuovo “spazio performativo”: come cambia il ruolo del pubblico in questa dimensione virtuale? Che tipo di accesso critico o emotivo permette?
Per due settimane, tra le installazioni interattive e partecipate del Festival c’è stato anche “Performing nel Metaverso”, a cura di Sonia Golemme. Un’intera sezione di tutto il progetto si incentra sulle nuove tecnologie e il loro apporto. È il lavoro di studio, ricerca e sintesi che sta portando avanti la stessa Golemme, unitamente all’Accademia di Belle Arti di Sassari. In particolare con i docenti Pietro Pirino e Marco Mendeni, che porterà alla fruizione digitale immersiva di tutti gli eventi di Performing, realizzati da ottobre 2024 a marzo 2026. L’obiettivo del team di sviluppo è mostrare che la virtualità può essere impiegata in modo etico e orizzontale, per garantire il massimo accesso alla cultura. Superando barriere architettoniche e frontiere geografiche, abbattendo notevolmente i costi dei consumi culturali. Ovviamente il Metaverso non vuole e non può essere sostitutivo della realtà, delle esperienze dirette. Ma deve essere considerato uno strumento esosomatico addizionale, al cui uso e alla cui costruzione dobbiamo essere avvezzi.
Il festival ha una cadenza biennale: quali traiettorie immaginate per le prossime edizioni? Ci sono già temi o aree geografiche su cui vorreste porre l’attenzione futura?
Performing è un progetto di durata biennale, che è possibile grazie ai fondi PNRR per l’internazionalizzazione. Destinati al comparto dell’Alta formazione artistica e musicale del Ministero dell’Università e Ricerca. In primis vorremmo rendere stabile, con cadenza annuale, il Festival delle arti performative che si è da poco concluso a Catanzaro. Affinché la cesura sistemica che abbiamo registrato fino ad ora tra formazione accademica e pratiche artistiche possa essere sanata. Ma è anche importante contribuire a costruire la comprensione dell’arte contemporanea nel pubblico, in città come Catanzaro più lontane dai circuiti di sistema. Ma anche lo spirito critico e di resilienza negli studenti, ovvero in coloro che saranno i cittadini di domani e che dovranno agire scientemente. E per questo continueremo a trattare temi sociali e politici, come le libertà individuali contro l’oppressione, le migrazioni e l’accoglienza, l’ecologia, la cura dell’altro e dei luoghi, per alimentare processi di cittadinanza attiva.














