
di Adriana Polveroni
Difficile maturare una posizione forte quando si ha un padre importante che forse, per un figlio, risulta addirittura ingombrante. Più facile declinare il tutto sull’affetto, sulla profonda gratitudine, su un’innata gentilezza, forgiando una personalità affettiva, emotivamente coinvolta, con le proprie idee e le proprie scelte, ma come un po’ defilata, consapevole che forse, mai, si potrà raggiungere quella vetta, quell’affermazione, culturale e imprenditoriale, che aveva caratterizzato la figura del padre.
Sì, Fabio Gori, primo figlio maschio (non primogenito) di Giuliano Gori, passato alla storia dell’arte del Novecento come quel grande collezionista che ha fondato la Fattoria di Celle, era una persona prima di tutto cara. Pensandolo, al momento della sua scomparsa – per me un caro amico – è il primo aggettivo che mi viene in mente. Sì, Fabio era prima di tutto una persona molta cara, molto vera, molto accogliente. Appassionato e lucido, ma modesto, capace di essere anche lui un imprenditore di successo, senza però, al pari del fratello minore Paolo, rivendicarlo apertamente. Collezionista anche lui, con le sue scelte condivise con l’amatissima moglie Virginia – “L’affare migliore della mia vita”, diceva scherzando –, con un ruolo di rilievo nel panorama culturale toscano: nel Cda del Centro Pecci per tanto tempo di cui ha seguito con passione tante vicende e riferimento per tanti artisti. Ma senza mai pensare di competere, offuscare, misurarsi con il babbo Giuliano, grande capitano d’industria, grandissimo collezionista, ma, prima di tutto, babbo. Cui, peraltro, Fabio somigliava moltissimo.

La riconoscenza e il rispetto verso Giuliano passavano anche attraverso scelte meno note, più private, che il babbo aveva fatto, in quanto imprenditore, verso i figli. Mettendoli giovanissimi alla guida dell’azienda, con lui eminenza grigia alle spalle, ma con la piena responsabilità nelle loro mani. Un grande esempio anche da questo punto di vista, il patriarca Gori. Il quale, mi raccontò una volta Fabio, quando acquistò Villa Celle e trasferì la famiglia (moglie e quattro figli) lì, su quel colle in provincia di Pistoia, non disse che era la sistemazione definitiva, salvo poi comunicarlo ai figli a un certo punto e lui, Fabio, all’epoca ragazzetto di 16 anni o giù di lì, si ritrovò isolato là, in quella splendida villa seicentesca, sorta di giovane castellano controvoglia, quando giù in città la vita brulicava, e le ragazze e i primi amori … e lui lassù. Ma quando Giuliano Gori decise di trasformare quella villa seicentesca in uno scrigno di opere straordinarie e in un impensabile parco romantico contemporaneo chiamò a raccolta tutta la famiglia, volendo condividere anzitutto con loro la visionarietà di quella scelta.

Tale è stata la consapevolezza di Fabio, e del fratello Paolo, di non poter mai fare qualcosa di simile a quello che aveva fatto Giuliano – così era uso chiamarlo Fabio, non babbo, ma Giuliano – strisciando toscanamante quella G – e sempre ammirato del padre: “Vedessi come sta! E chi lo ferma, Giuliano” – tale era il rispetto per quello che aveva fatto Giuliano: “Celle è roba sua”, mi ha detto varie volte che, quando lui e il fratello Paolo hanno deciso di misurarsi apertamente con l’arte, non hanno scelto di intervenire a Celle, ma di avviare un programma di progetti nello stabilimento – Gori Tessuti e Casa – che i due figli hanno molto contribuito a far crescere, ben oltre la grande azienda di tessuti che il babbo Giuliano aveva creato, cominciando, tanti anni prima, da un piccolo fondo, un negozietto a Prato, dove lavoravano lui e la preziosissima moglie Pina, che un giorno Fabio mi indicò come per dire che tutto era cominciato da lì.
A pochi chilometri di distanza, precisamente a Calenzano, nell’azienda Gori Tessuti e Casa, Fabio e Paolo hanno dato vita a “Arte in fabbrica”, consegnando di volta in volta a un artista l’ultimo piano di quello stabilimento dove sono avvoltolati oltre 10 milioni di metri di tessuti e che ospita mobili indiani, cinesi e altre meraviglie orientali che i due fratelli sono andati personalmente a scovare in Asia.

“Arte in fabbrica” ha conosciuto tre edizioni: con Vittorio Corsini, curata da Marco Scotini, con Fabio Favelli, curata da Pietro Gaglianò, e con Claudia Losi, curata dalla sottoscritta. Non è andata avanti negli ultimi due anni anche per l’aggravarsi della malattia di Fabio: “Dai, pensaci a un’altra artista. Sempre italiano, perché vogliamo lavorare sugli artisti italiani, e possibilmente donna, come la Claudia, con cui ci siamo trovati tanto bene”, mi aveva detto Fabio. Ma non ce l’abbiamo fatta.
Ciao caro Fabio, che la terra ti sia lieve.













