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Addio a Sylvio Perlstein, collezionista visionario dell’arte del Novecento

Sylvio Perlstein in una foto del 2014 — Foto: Fábio Seixo / Agência O Globo
Sylvio Perlstein in una foto del 2014 . Credits: Fábio Seixo. Courtesy Agência O Globo
Si è spento Sylvio Perlstein, collezionista, mecenate e figura di riferimento nel panorama artistico internazionale. La galleria Hauser & Wirth ha confermato la notizia con un post su Instagram, ricordandolo come “un collezionista visionario” capace di dare forma a una delle raccolte più significative del secolo scorso.

Nel 2018, le sedi della galleria a Chelsea e Hong Kong esposero 380 opere della Sylvio Perlstein Collection nella mostra A Luta Continua, mettendo in luce il suo approccio intuitivo e la vicinanza agli artisti. La collezione spazia dal Dada e Surrealismo (Max Ernst, Man Ray, Dora Maar, René Magritte) al minimalismo e post-minimalismo americano (Donald Judd, Brice Marden) fino alla land art (Richard Long, Robert Smithson).

Nato in Belgio negli anni ’30, Perlstein fuggì con la famiglia in Brasile nel 1939 per sfuggire ai nazisti. Cresciuto a Rio de Janeiro, acquistò la sua prima opera d’arte da adolescente, prima di entrare nell’azienda di diamanti di famiglia ad Anversa. Negli anni ’70 viaggiò spesso a New York per lavorare con il gioielliere Harry Winston, entrando in contatto con numerosi artisti e iniziando scambi e acquisizioni. La sua raccolta riflette la doppia identità culturale, includendo opere di modernisti belgi come Magritte e Marcel Broodthaers e di artisti brasiliani come Ernesto Neto e Vik Muniz. Memorabile la sua amicizia con Man Ray, nata nel 1969 a Vence, che gli permise di acquisire molte opere iconiche.
Il collezionista nutriva un interesse particolare per i neon — con lavori di Bruce Nauman, Mario Merz e Dan Flavin — e per immagini legate ai capelli femminili, tema ricorrente in opere di artisti come Tunga, Pierre Boucher e Dora Maar. A differenza di molti collezionisti, amava vivere circondato dalle sue opere, esponendo centinaia di fotografie e disegni nella sua casa parigina, descritta dal critico Arthur Lubow come “una versione contemporanea della caverna di Alì Babà”.

 

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