
Intervista a Julian Schnabel, che presenta Fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia il suo In the Hand of Dante
Fuori concorso alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia, In the Hand of Dante segna il ritorno al cinema di Julian Schnabel, artista e regista che da sempre alterna pennelli e macchina da presa. Il film, tratto dal romanzo di Nick Tosches, intreccia due linee temporali: il XXI secolo, in cui un manoscritto che si presume autografo della Divina Commedia scatena ossessioni e violenze, e il Trecento, in cui Dante stesso affronta i propri demoni, umani e letterari. Un racconto visionario e materico, dove l’arte si mescola alla carne e alla colpa, in cui – come dice Schnabel – “la lotta è diventare poesia”.
“Se esiste solo l’eterno presente, allora tutto il tempo scorre simultaneamente, e non c’è motivo per cui un ragazzo della malavita non possa essere la reincarnazione di Dante Alighieri”, spiega Schnabel ad ArtsLife, incontrato a Palazzo Diedo, nuova sede di prestigiose residenze artistiche a Venezia.
“Credo che Dante sia tornato sulla Terra perché sentiva che qualcuno aveva manomesso la sua opera. A sua insaputa, Nick è Dante, e gli è stata data l’opportunità di correggere gli errori commessi settecento anni fa. Nella lotta per la perfezione nell’arte, le nostre vite possono essere meno che perfette – persino afflitte dal fallimento – ma tutto ciò che esiste al di fuori dell’opera d’arte non esiste. L’obiettivo è diventare la poesia. Dante e Nick ci sono riusciti. Io ci sto ancora lavorando”.
L’Italia come matrice
Per Schnabel, l’Italia non è solo lo sfondo ideale per un film che dialoga con Dante, ma un vero e proprio luogo di formazione, un archivio vivo di visioni e incontri. “Amo l’Italia, vengo qui dal 1976. Ho avuto molte mostre: al Museo Correr in Piazza San Marco, all’Arsenale quando Germano Celant era ancora vivo. Ho conosciuto Mario Merz, Alighiero Boetti, Francesco Clemente. Ho vissuto a Firenze, Ravenna, Verona, Venezia. L’Italia è stata molto, molto generosa con me”.
Il regista sottolinea come la scoperta diretta dell’arte italiana sia stata un punto di svolta: “Quando studiavo a Houston, vedevo riproduzioni nei libri – Taschen o altri – ma non puoi capire davvero così. Devi stare davanti ai dipinti. Devi andare a vedere la Conversione di San Paolo a Santa Maria del Popolo, o la Cappella degli Scrovegni a Padova. Quante persone vengono a Venezia e non vanno mai a Padova? È come vivere a New York e non salire mai sull’Empire State Building. In Italia l’arte e l’architettura sono conservate in un modo che ti fa viaggiare nel tempo”.
Un Paese che apre porte
Nelle sue parole, l’Italia non è solo un museo a cielo aperto, ma un contesto umano che ha sempre saputo accoglierlo e aprirgli strade: “Ho potuto filmare nella Biblioteca Marciana. A volte sembrava impossibile avere accesso a certi luoghi, e un attimo dopo qualcuno apriva una porta. Ho ricevuto molto aiuto, dalle istituzioni e dalle persone comuni. L’Italia mi ha dato tutto”.
È anche attraverso questo intreccio di arte, amicizie e possibilità inattese che Schnabel ha costruito un legame duraturo con il nostro Paese, un legame che oggi trova una nuova consacrazione proprio con In the Hand of Dante.
Un film tra due mondi
Il lungometraggio segue Nick Tosches – alter ego e reincarnazione di Dante – in un viaggio che incrocia mafia, amore e ossessione artistica. Accanto a lui compare Louie, killer contemporaneo che nel Trecento fu papa Bonifacio VIII. Una doppia linea narrativa che mette in cortocircuito fede, desiderio e letteratura, senza mai perdere il filo con il presente.
Il risultato è un noir esistenziale, crudo e lirico al tempo stesso, in cui la violenza convive con la ricerca assoluta di senso. Schnabel sorride: “Tutto quello che ho davvero da dire è nella mia arte. Ma con questo film ho potuto guardare Dante negli occhi. E forse, chiudere un cerchio”.
Venezia come crocevia
La scelta di presentare il film proprio a Venezia non è casuale. La città, che per Schnabel è da sempre un approdo e un laboratorio, diventa cornice ideale di questo dialogo con la tradizione italiana. Non solo perché Dante passa simbolicamente il testimone a Tosches, ma perché Venezia stessa, con la sua capacità di custodire il passato e al tempo stesso aprirsi all’arte contemporanea, rispecchia il doppio movimento del film.
Un cerchio che si chiude
Con In the Hand of Dante, Julian Schnabel mette insieme le due anime che lo hanno sempre definito – quella del pittore e quella del cineasta – riportandole in dialogo con l’Italia, che è stata matrice e alleata. E se il film si interroga sulla possibilità di diventare poesia, l’esperienza personale dell’artista sembra offrire una risposta: a volte, per riuscirci, bisogna tornare dove tutto è cominciato.














