
A Milano nell’incantevole Padiglione d’arte nel cortile interno della Fondazione Rovati, con la mostra “Peter Gabriel Frammenti dell’identità” (fino al 26 ottobre 2025) si conclude “Echoes Origini e rimandi dell’art rock britannico” il progetto espositivo articolato in tre mostre tra gli anni Sessanta e Ottanta, a cura di Francesco Spampinato, all’insegna dell’ibridazione di diversi tecniche e linguaggi, sperimentazione e creatività.
Con la mostra dedicata a un pioniere della videoarte mago del travestimento dall’identità molteplice si conclude con un viaggio metaforico negli anni Settanta all’insegna della sperimentazione multimediale e Ottanta aperti a nuove ibridazioni, per testimoniare la cultura postmodernista e nuovi codici visivi e linguaggi, in cui si abbattono le barriere tra arte, musica, tecnologia e trionfa la videoarte. Stiamo parlando del decennio rivoluzionato dalla comparsa di MTV, acronimo di Music Television, un canale televisivo tematico lanciato nel 1981 negli Stati Uniti, con lo scopo di trasmettere videomusicali 24 ore su 24, un palinsesto che ha ribaltato i modi di concepire la musica legati all’immagine, con video sempre più artistici, come dimostra Peter Gabriel (1950), figlio di un ingegnere elettronico, cantante, compositore e produttore discografico, ex componente dei Genesis, la band che deve in parte la sua fama anche all’esuberante presenza scenica, dal trucco ai costumi ideati dall’artista nei concerti dal vivo, che da solista ha rinnovato il mondo dei videoclip. Il genio dell’art rock nella sua pionieristica ricerca di supportare la musica con l’immagine e viceversa, ha coniato nuovi codici visivi e nel corso del tempo ha pubblicato diciannove album, e tutt’oggi non smette di ricercare innesti nuovi codici sonori e visivi.

Per capirci che cosa parlando, basta citare il video Shock The Monkey (1982), singolo di successo utilizzato anche per le suas esibizioni dal vivo, in cui il travestimento per l’artista corrisponde alla ricerca sull’immagine di sé stesso e come viene percepito dal pubblico. Gabriel è capace di stupire anche i nativi digitali per ricerca grafica ed effetti tutt’altro che scontati sul piano tecnologico, in linea con le sperimentazioni di Nam June Paik (1932-2006), pioniere della video arte, Bruce Nauman (1941) artista eclettico e l’immensa Laurie Anderson (1947), performer e musicista. Nella musica e nella vita il travestimento costruisce le diverse identità, e il Gabriel musicista non l’ha fatto soltanto per attirare l’attenzione o mascherare la paura del palcoscenico (come lui stesso ha affermato), ma è una necessità espressiva ed estetica. Il gusto della maschera, del travestimento è insito nella musica degli anni Settanta, nel Glam rock inglese, basta citare il maestro David Bowie tanto per inquadrare il contesto cultuale nella quale si sviluppano gli intrecci tra musica e neoavanguardie. Alla Fondazione Rovati, dopo la mostra “The Beatles. Il mito oltre la celebrità” e a seguire “Pink Floyd, Yes, Genesis”, l’esposizione incentrata sulla poliedrica attività performante di Peter Gabriel non delude le attese con l’artwork originale dello studio Hipgnosis per la copertina di The Lamb Lies Down on Broadway (1974) dei Genesis, accompagnato dal prezioso carteggio tra Gabriel e StormThorgerson, che svela il ruolo attivo dell’artista nella creazione di prodotti musicali in relazione con le sperimentazioni dei linguaggi artistici dell’epoca. Bastano le copertine dei LP dell’artista, concepite come manifesti d’autore di un io frammento e performante per comprendere le contaminazioni con l’arte, di una personalità in bilico tra verità e finzione.
La mostra incomincia nell’atrio del Museo dove fanno capolino una selezione della produzione discografica di Gabriel affiancati da alcuni innovativi progetti multimediali e interattivi su CD-Rom realizzati negli anni Novanta. Faranno impazzire i collezionisti, una serie di figurine Lego che ritraggono i celebri personaggi portati in scena da Gabriel durante il periodo con i Genesis, dalla donna volpe in abito rosso di Foxtrot alla visionaria figura di The Flower. Nel Padiglione apre il percorso espositivo la celebre fotografia Rrose Sélavy (1921), l’alter ego di Marcel Duchamp di Man Ray che immortala il padre dell’arte concettuale travestito da donna e prosegue con le stampe Fine Art firmate Thorgerson e da Gabriel delle copertine dei primi tre album da solista Car (1977), Scratch (1978) e Melt (1980), in cui viene elaborato un processo di decostruzione dell’identità del musicista e delle sue maschere. Resta impresso nella memoria il primo piano scattato dalla figlia Anna Gabriel (fotografa e filmmaker) a suo padre, tratto dalla serie EYE-D, ritratti di celebrità immortalati attraverso un solo occhio. È seduttiva e ipnotica la fotografia di Guido Harari di Gabriel scattata nel bagno di Sanremo nel 1983, non sono fuori tema le figure stilizzate ideogrammi di Keith Haring e i corpi deformati di Kiki Smith sul tema della fragilità dell’essere umano.













