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Abbracciare molteplicità: la 36.ma Biennale di San Paolo

Vista da instalação de Tanka Fonta durante a 36ª Bienal de São Paulo © Levi Fanan / Fundação Bienal
Vista da instalação de Tanka Fonta durante a 36ª Bienal de São Paulo © Levi Fanan / Fundação Bienal
125 artisti all’insegna di un re-incontro con l’umanità; apre a San Paolo, in Brasile, la 36.ma edizione della Biennale sotto il titolo di “Nem todo viandante anda estradas”

“Non tutti i viandanti percorrono strade. Dell’umanità come pratica”, è il titolo della 36.ma Biennale di San Paolo, che si svolge anche in questa occasione nel suo splendido padiglione modernista – sede della fondazione, firmato da Oscar Nyemeier, al Parco Ibirapuera.
Affollata di 125 nomi – brasiliani, latini, internazionali, la Biennale è la ciliegina sulla torta di una settimana iniziata con Rotas, la fiera “sorella” di SP Arte, diretta da Fernanda Feitosa, che da quest’anno si è aperta alle gallerie dell’America del Sud: una fiera perfetta, con poco più di 60 gallerie e una sezione speciale, “Mirante”, curata dal direttore del MALBA di Buenos Aires, Rodrigo Moura. E poi, da una parte e dall’altra della città, una serie infinita di esposizioni che hanno aperto negli ultimi dieci giorni, tanto in gallerie quanto nelle istituzioni della metropoli, prima tra tutte il MASP, che il 3 settembre ha inaugurato la sua nuova collettiva “Storie dell’Ecologia”, tracciando un ponte con quella che è stata la mostra più visitata nella storia del museo: “L’ecologia di Monet”, in chiusura questa settimana, che ha registrato un record di oltre 440mila ingressi.

Vista dell’installazione di Gê Viana, ph. © Levi Fanan, Fundação Bienal de São Paulo

Capitanata dal carismatico Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, camerunense e direttore dell’Haus der Kulturen der Welt (HKW) di Berlino, insieme a Alya Sebti, Anna Roberta Goetz e Thiago de Paula Souza, con la curator at large Keyna Eleison e della consultoria di Henriette Gallus, “Nem todo viandante anda estradas” è una biennale certamente più poetica che politica. O forse, proprio per il suo voler essere lirica, espansa, molteplice e inclusiva – ma evitando, per fortuna, forme di scelta “politicamente corrette”, ha già fatto storcere qualche naso agli addetti ai lavori locali nella giornata di pre-preview: troppa retorica, pochi punti alti, mancato dialogo tra le opere e, soprattutto, un certo caos nel display espositivo, con didascalie sistemate in angoli che nemmeno una mappa di caccia al tesoro, già che quella offerta ai “viandanti” delle professioni dell’arte nelle prime ore dell’opening è stata a sua volta ben complessa.
Ma già che oggi, nel regno della relatività e dell’arbitrarietà si può declinare tutto o quasi in ogni salsa, cerchiamo di offrire un’analisi qualitativa e, per quanto possibile, imparziale: alla 36.ma Biennale di San Paolo vincono le grandi installazioni. Per la prima volta dopo diverse Biennali (basti pensare alla stessa di San Paolo, nel 2023, o a quella di Venezia, “Stranieri Ovunque”, dello scorso anno) la pittura sembra aver lasciato il posto a commissioni che, se non monumentali, poco ci manca.

Conjunto de fotografias de vistas obras instalações da 36 Bienal de São Paulo para imprensa (PressKit) para Fundação Bienal de São Paulo

Una scelta mirata, ha spiegato Thiago de Paula Souza, che lasciasse aperto il Padiglione di Nyemeier il più possibile all’esterno, con interi spazi avvolti dalla luce naturale ed evitando di costruire sale e salette e pareti e paretine: il risultato è abbastanza visibile, e laddove – al terzo piano della mostra, sembra esserci una divisione di semi-pareti di carta, si scopre che Maxwell Alexandre, ex enfant-prodige della scena brasiliana, cresciuto nella maggiore favela di Rio de Janeiro e una delle più grandi del mondo, Rocinha, a partire dalla quale ha costruito il suo sguardo e il suo approccio sul mondo, colpisce ancora: Galeria 2 (2025) parte della serie Cubo Branco (i più chic direbbero “white cube”) oltre ad essere una grande installazione è anche una critica, l’ennesima, che l’artista fa alle “strutture” che da sempre hanno governato il sistema dell’arte: una cornice dorata, vuota, contorna un foglio “pardo”, tono di colore utilizzato per descrivere il proprio colore di pelle e dunque la propria discendenza, su cui viene riportata l’immagine di un cubo bianco, a rivendicare la storia di un “bello” che sfida le convenzioni e si afferma come una forza radicale nella sua nuova possibilità di sfidare quelle che sono state le forme di censura e di annichilimento della storia dell’arte non ufficiale.
Sotto questo punto di vista, chiaramente, la Biennale abbonda tanto di artisti di una sponda quanto dell’altra: accanto a nomi come Laure Provoust, Kader Attia, Wolfgang Tillmans, Pol Taburet, il ritrovato Oscar Murillo o Isa Genzken, ci sono Maria Auxiliadora (scomparsa nel 1974 a soli 39 anni), pittrice considerata naif per decine e decine di anni o i ricami in paillettes e perline di Myrlande Costant, dedicati al sincretismo religioso e alle tradizioni degli incantati di Haiti.

Conjunto de fotografias de vistas obras instalações da 36 Bienal de São Paulo para imprensa (PressKit) para Fundação Bienal de São Paulo

C’è Gervane de Paula, artista che per aver scelto di vivere nella sua città natale, Cuiabá, centro dell’America del Sud, lontana “anni luce” dal dinamismo economico di Rio e San Paolo, per oltre quattro decadi di carriera ha visto la propria ricerca archiviata come “popolare” e dimenticata dal circuito ufficiale. Ma Gervane ha continuato imperterrito a produrre e quel che la storia ci consegna, oggi, è un insieme di opere coraggiose e politicamente scorrette, parlando di ecologia e natura, deforestazione e cartelli della droga quando, ancora, questi argomenti erano decisamente occultati.

Tra gli altri grandi brasiliani, giovani o meno, non si può dimenticare la presenza di Marlene Almeida, artista che debutta per la prima volta alla Biennale di San Paolo a 83 anni, con due splendide installazioni dedicate alle terre del Paese, punto culminante di una ricerca decennale che, a sua volta, viene oggi finalmente omaggiata. E poi ci sono Antonio Társis e Gê Viana, a loro volta alla prima partecipazione alla Biennale, che riflettono su questioni (anche) autobiografiche, espandendo il corpo dell’opera, aprendolo ad altre dimensioni: Társis combinando elementi comuni come scatole di fiammiferi, zolfanelli e carbone, per una indagine sulla generazione dell’elemento primario, il fuoco, come fonte perenne di evoluzione; Viana omaggiando la cultura del suo stato e della sua città, in particolare: São Luís do Maranhão. Qui, narra la leggenda, arrivarono le onde corte delle radio caribene diffondendo il reggae in questo angolo a nord del Brasile, creando una cultura unica che, nel tempo, ha unito musica e ancestralità, antichi culti e immagini sacre, insieme all’iconografia della colonizzazione e della segregazione razziale, che, nella produzione dell’artista, diventa un vero e proprio panorama culturale.

Conjunto de fotografias de vistas obras instalações da 36 Bienal de São Paulo para imprensa (PressKit) para Fundação Bienal de São Paulo

C’è qualcosa insomma, nella Biennale di San Paolo, che pur essendo estremamente attuale (per non dire alla moda), sembra appartenere a una dimensione che da tempo avevamo dimenticato, ovvero quella di una unione umana, di una concentrazione poetica, di qualcosa che – finalmente, tornasse a parlare ai sensi: poco, addirittura pochissimo “digitale” in mostra; nessuna intelligenza più intelligente, decisamente pochi video e ben sistemati per coloro i quali ancora prendono una Biennale d’arte visive come la Mostra del Cinema. Insomma, in “Nem todo viandante anda estradas” vincono le installazioni, senza per forza ricreare l’effetto luna-park detestato dai concettuali, ma investigando il senso di una meraviglia che ha a che fare con la terra, con il coinvolgimento emotivo.
D’altronde, Bonaventure, nel suo essere un curatore dall’aspetto di demiurgo e un po’ profeta, in chiusura alla conferenza stampa ha dichiarato che l’amore sempre vince, strappando un accalorato applauso nel citare – tra tutte le altre aree di conflitti nel mondo, Gaza e la Palestina come territori dove la vera attitudine umana dovrebbe essere quella di ricostruire la l’umanità. E che c’entra l’arte? “L’arte ci dà la possibilità di riconsiderare il mondo”, ricorda il capo-curatore, citando anche il poema sufi di Jalaluddin Rumi, The Guest house: “Quest’essere umano è una casa d’ospiti/ Ogni mattina un nuovo arrivo./ Una gioia, una depressione, una meschinità,/ una momentanea consapevolezza giunge/ come visitatore inatteso./ Accoglieteli e intratteneteli tutti!/ Anche se sono una folla di dolori,/ che spazzano via violentemente la tua casa/ svuotandola dei suoi mobili,/ tratta ogni ospite con onore./ Forse ti sta liberando/ per qualche nuova gioia”.

Vista dell’installazione di Antonio Társis, ph. © Levi Fanan, Fundação Bienal de São Paulo

Chissà, forse l’arte da queste parti ha accettato un approccio meno nichilista e meno conservatore di quello che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, dove la lirica è stata ricacciata nell’ordine minimalista o nell’ironia, mentre all’Ibirapuera siamo più vicini al “Fare Mondi” per davvero: Thiago de Paula Souza lo ribadisce, parlando dei vari estuari dei grandi fiumi del mondo, dal Brasile alla Cina, in grado di fondere salinità e correnti per creare ecosistemi completamente originali che rivelano spazi interconnessi che, anche se non principiano dalle stesse origini, ad un certo punto della propria esistenza si incontrano.

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