
Considerazioni finali sull’82ª Mostra del Cinema di Venezia, fra luci (molte) e anche qualche ombra, anche pratica
Se il cinema è davvero specchio della società, l’82ª Mostra del Cinema di Venezia ha raccontato un’urgenza quanto mai attuale, quella di riscoprire il valore della ricerca per analizzare la realtà. Le scorciatoie emotive non bastano più, e le risposte immediate mostrano tutti i loro limiti in una società in cui suoni e immagini possono essere facilmente manipolati. Serve un lavoro autentico, paziente, d’indagine.
I film in concorso hanno esplorato il territorio dell’incertezza come forma di onestà intellettuale, un cammino che procede per stratificazioni e che non approda a verità assolute, ma resta un processo aperto, senza fine. I film del 2025 non hanno chiesto di scegliere un fronte, ma di rimettere in discussione le nostre certezze, di accogliere prospettive molteplici, di aprire gli orizzonti ad ogni possibilità, di non escludere ipotesi lasciando che la realtà si riveli nella sua prismaticità. L’incertezza è scomoda, esigente, richiede tempo ed energie, ma è anche la condizione stessa della democrazia.
Il festival del dubbio
Molti film in concorso hanno offerto quasi “casi di studio”. Per esempio La Grazia di Paolo Sorrentino mette il Presidente della Repubblica di fronte a dilemmi insolubili: la grazia, l’eutanasia, la responsabilità morale. Tre casi, tre possibili scelte, nessuna risposta rassicurante. Guillermo del Toro col suo Frankenstein reinventa la storia più classica del cinema: la prospettiva del creatore si specchia in quella della creatura, mostrando che la verità non appartiene mai a un solo punto di vista. House of Dynamite di Kathryn Bigelow racconta tre versioni di un medesimo evento, prima di un impatto catastrofico.
Un film che interroga il tempo stesso, ricordandoci anche che nella coscienza umana il tempo non scorre in modo lineare, ma è un eterno presente. Silence Friend di Ildikó Enyedi lavora anch’esso sulla pluralità degli sguardi, confermando che la realtà non è mai univoca, ma complessa e stratificata. Lo stesso After the Hunt di Luca Guadagnino – presentato fuori concorso – apre con coraggio il dibattito sul “dopo MeToo”, affrontando i rischi dei tribunali mediatici, la difficoltà di distinguere tra giustizia e spettacolo, colpa e perdono. Un concorso che non ha cercato di rassicurare, ma ha restituito la forza perturbante del dubbio, la prismaticità della realtà.

Un festival che ha funzionato
Oltre all’altissimo livello dei film in competizione, sul piano organizzativo, la Mostra 2025 è stata tra le edizioni più riuscite. La piattaforma di prenotazione ha finalmente funzionato in maniera fluida; gli orari delle proiezioni e delle conferenze erano equilibrati e consentivano a giornalisti e accreditati di coprire il maggior numero di eventi senza rincorse impossibili. La sensazione condivisa da molti addetti ai lavori è stata quella di un festival “a misura d’uomo”, ben orchestrato e accessibile. Un merito che va riconosciuto al team della Biennale, capace di coniugare complessità e precisione logistica.
Migliorare si può
Eppure, anche in un’edizione tanto positiva, restano alcune questioni che meritano attenzione, e la Biennale così come il Presidente Pietrangelo Buttafuoco e il Direttore Alberto Barbera forse possono fare qualcosa.
1. Le giurie senza critici
Si avverte la mancanza di un critico, di un giornalista o di un teorico all’interno delle giurie. La loro presenza sarebbe un valore aggiunto: capaci di mettere in relazione i film con la filmografia dei registi, di interpretare linguaggi e simboli, di fornire strumenti di lettura che vadano oltre l’emozione immediata. Non si tratta di contrapporre i critici agli artisti, ma di affiancarli, rendendo il giudizio più solido e consapevole. Un riconoscimento necessario al lavoro intellettuale, troppo spesso relegato ai margini e sottovalutato nella sua utilità pratica, non solo in Italia ma a livello internazionale.
2. La questione degli alloggi
Altro tema caldo fra i professionisti riguarda i costi esorbitanti degli affitti al Lido durante la Mostra. Con richieste che possono raggiungere anche 136.000 euro per 13 notti (in allegato screenshot da siti immobiliari) per appartamenti di qualità discutibile, la partecipazione al festival diventa un lusso insostenibile per molti addetti ai lavori. Helena Lindblad, editorialista e critica cinematografica capo di Dagens Nyheter ha detto «Partecipo al Festival del Cinema di Venezia dagli anni ’90, è sempre stato uno degli appuntamenti più importanti del circuito dei festival. Tuttavia, l’aumento vertiginoso dei prezzi degli alloggi sta diventando un problema serio anche per noi giornalisti in organico».


Mariam Schaghaghi, nota giornalista cinematografica tedesca e contributor di testate come Frankfurter Allgemeine e Madame, ha aggiunto: «I prezzi per un alloggio sul Lido sono surreali. Negli ultimi anni trovare una stanza decente è quasi impossibile: spesso si tratta di spazi minuscoli, bagni in condivisione, strutture fatiscenti, affittate a cifre che superano di gran lunga la sostenibilità del lavoro giornalistico». Anche Alica Maffezzoli, produttrice, conferma le difficoltà: «Partecipo al Festival da oltre vent’anni e negli ultimi dieci la situazione è diventata assurda.
Già sei, sette mesi prima del festival è quasi impossibile trovare stanze singole: spesso i bagni sono in condivisione, le strutture fatiscenti e le condizioni igieniche precarie, soprattutto a causa del sovraffollamento degli appartamenti. Anche negli hotel, quando si è fortunati, le stanze singole misurano appena quattro metri quadrati, senza alcun comfort, e i prezzi raggiungono cifre esorbitanti: si parte dai 3.000 euro per 10 giorni circa. È evidente che la partecipazione al festival, così, rischia di diventare un privilegio per pochi».
Michael Arnon, ufficio stampa membro dell’agenzia internazionale Wolf, attiva da circa vent’anni nell’industria cinematografica «Il Lido non è mai stato economico, ma quest’anno sembra aver registrato un aumento esorbitante dei prezzi. Abbiamo sentito di persone che hanno pagato migliaia di euro per poche notti in hotel, e il prezzo del nostro appartamento di lunga data è aumentato del 50% dopo appena 12 mesi, adeguandosi ai valori di mercato. Trovare un affare e un alloggio a un prezzo sostenibile è ormai impossibile». La Biennale, come istituzione di riferimento, potrebbe farsi promotrice di una soluzione: alloggi calmierati o convenzionati per giornalisti e operatori, almeno per i professionisti che da anni sostengono il festival con il loro lavoro e la loro presenza.
3. Il paradosso dei giornalisti pensionati
Infine, una riflessione che riguarda più direttamente le testate italiane: la presenza consistente di giornalisti ormai in pensione, che continuano a ricoprire ruoli di inviati e occupano slot e roundtable sempre più limitati. Professionisti che hanno iniziato a lavorare nei loro primi vent’anni, che percepiscono oggi pensioni elevate e che sono fuori dal servizio anche da oltre un decennio. Questa pratica penalizza chi lavora attivamente, spesso con compensi modesti, e blocca il ricambio generazionale. La protesta dei redattori del Corriere della Sera ad aprile scorso ne è stata una manifestazione significativa, ma rappresenta soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso, che interessa numerose testate, in particolare i quotidiani.
La Mostra di Venezia potrebbe diventare un luogo simbolico per aprire questa discussione, affrontando il futuro della professione giornalistica in Italia, in un contesto in cui l’introduzione dell’intelligenza artificiale sta ridefinendo radicalmente il lavoro nella comunicazione e impatterà su migliaia di posizioni.

Venezia e il coraggio di guardarsi allo specchio
La Mostra del Cinema e l’istituzione che la ospita, La Biennale, non sono soltanto il più antico festival cinematografico e una delle realtà culturali più prestigiose al mondo, un vero fiore all’occhiello per l’Italia e per la cultura globale. Sono soprattutto un laboratorio di avanguardia e innovazione, uno spazio in cui le arti e ciò che resta del cinema riflettono e interrogano la società. Il linguaggio audiovisivo, la percezione della realtà e le forme dello spettacolo stanno cambiando, così come le nuove generazioni osservano il mondo con occhi differenti rispetto a quelle precedenti.
All’Università Roma Tre, prima della mia esperienza negli Stati Uniti – la mia famiglia materna ha radici newyorkesi – ho avuto la fortuna di incontrare docenti straordinari, capaci di nutrire la mia passione sconfinata per il cinema, ai quali resto profondamente riconoscente. Tra loro ricordo con particolare affetto il Professor Ruffini, docente di Storia del Teatro e Semiologia dello Spettacolo. In una delle sue lezioni – vere e proprie performance, con aule strapiene e compagni seduti per terra in silenzio religioso – a proposito dell’arte ci disse che l’unico modo per mantenere pulito un pozzo è rischiare di sporcarlo, muovendo le acque.
Quella parabola mi accompagna ancora oggi: migliorare, innovare e mettere in discussione le certezze consolidate richiede coraggio, ma è un passo necessario. Migliorare la composizione delle giurie, affrontare l’urgenza inderogabile del nodo logistico degli alloggi e riconoscere il ruolo dei professionisti attivi nel giornalismo rappresenta un impegno concreto.
Se la Biennale decidesse di farsene carico, potrebbe affrontare queste sfide in maniera efficace, rafforzando il proprio ruolo di istituzione culturale tra le più autorevoli al mondo e contribuendo al bene collettivo dell’intero ecosistema cinematografico. E così, nel cuore della Laguna, tra riflessi e ombre di vetro e acqua, mettersi in discussione diventa già una vittoria, una scintilla capace di aprire mente e sensi verso un futuro migliore.














