Alessandro Boscolo, giovane artista muranese specializzato nella lavorazione a lume, si colloca esattamente in questa zona di confine tra l’eredità tecnica e l’elaborazione artistica, tra la tradizione familiare e una riflessione profonda sul concetto di trasmissione. Lo abbiamo incontrato in occasione della Glass Week veneziana
Accade tutto in pochi secondi. Un colombo entra nel bar, smarrito, taglia l’aria bassa e si posa sulla mensola degli alcolici, tra bottiglie colorate e sguardi distratti. Alessandro si alza, lo raggiunge senza fretta. Il suo gesto è privo di esitazione. Una mano lo accoglie, l’altra lo trattiene con dolcezza e lo conduce verso la ritrovata libertà. Nessuno scatto, nessuna forzatura. Solo un movimento calibrato, deciso e leggero, come se il corpo conoscesse già la traiettoria giusta. Il volo riprende.
Siamo da Poldo, storico chiosco a Murano tra il ponte delle Terese e calle Convento, cuore quotidiano di un’isola che conserva ancora le sue abitudini, i suoi riferimenti di prossimità, le sue storie sottovoce. È qui che Alessandro è cresciuto, poco lontano, ed è qui che lo incontriamo. Un luogo che potrebbe apparire marginale, ma che restituisce in filigrana la struttura profonda della sua pratica: una prossimità radicata al contesto, un’adesione piena alla realtà che lo circonda.
Quel gesto — prendere il colombo e farlo volare — non è un aneddoto, ma una chiave. In esso si riflettono i tratti fondamentali del suo approccio al vetro: fermezza e delicatezza, ascolto e intervento, capacità di agire sul contesto senza spezzarlo. Non c’è teatralità né posa, solo precisione e cura. È così che Alessandro plasma anche la materia, senza scorciatoie, senza violenza. Il vetro, come l’animale impaurito, va incontrato nel suo stato di fragilità, e da lì accompagnato verso una nuova forma.
L’opera di Alessandro Boscolo, giovane artista muranese specializzato nella lavorazione a lume, si colloca esattamente in questa zona di confine tra l’eredità tecnica e l’elaborazione artistica, tra la tradizione familiare e una riflessione profonda sul concetto di trasmissione. È in questa tensione — calda, vitale, a tratti incandescente — che va rintracciata la qualità più interessante del suo lavoro, quella di un depositario non obbediente, capace di rifare un gesto senza ripeterlo. Il suo non è un apprendistato passivo né una mimesi fedele, ma un processo di riscrittura affettiva e critica che attraversa ogni pezzo, ogni forma, ogni fiamma.

Figlio d’arte, cresciuto in un laboratorio a lume, Alessandro ha avviato il suo percorso in età precoce. La formazione si svolge inizialmente per prossimità e assorbimento, ma presto si apre a una pratica trasformativa. Tra i suoi ricordi, riportare in muffola i pezzi finiti del padre, riscaldarli, modificarli, renderli nuovamente vivi. Questo gesto di “sanificazione” — nel senso etimologico e simbolico del termine — rivela un’attitudine critica e al tempo stesso affettiva. L’opera paterna non viene negata, ma attraversata, interrogata, resa materia in dialogo.
Il vetro, in questo processo, non è mai solo materiale, ma punto di contatto tra generazioni. “Tienilo caldo”, gli diceva il padre. Non è solo un consiglio tecnico: è una filosofia della cura. Tenere caldo il vetro significa lasciarlo aperto alla trasformazione, alla possibilità che qualcosa avvenga ancora. Significa riconoscere nel calore una condizione per l’ascolto.
Boscolo lavora con il cannello, ma ciò che plasma è anche un’idea di valore: la rottura non è un errore, ma un passaggio necessario. Maltrattare il vetro, spingerlo al limite, è un atto che coniuga virtuosismo e messa in questione. Non c’è desiderio formale che non implichi una crisi dei codici. “Senza superare la paura della rottura, nulla accade”: questa frase, raccolta durante il nostro incontro, potrebbe costituire la sintesi poetica e filosofica della sua ricerca.
Da questo approccio deriva anche una posizione etica sulla formazione. Se il vetro può essere appreso, non deve avvenire per forza attraverso la riproposizione acritica di una dinamica di dominio, tipica della tradizione. Nelle parole di Boscolo si legge un rifiuto all’apprendistato autoritario che storicamente ha attraversato le fornaci. Non più bastone e carota, ma percorsi condivisi, dove l’apprendimento è basato su coinvolgimento, rispetto e dialogo. Un cambio di paradigma urgente e necessario, che interroga anche le responsabilità della comunità locale nel generare contesti di accoglienza e continuità.
Perché Murano, per Alessandro, non è solo uno spazio di produzione, è una comunità estetica e sociale. Se “chi ama il vetro decide di vincere nella nostra comunità”, allora deve poter essere accolto. Portare i figli nelle scuole, vivere i bar, contribuire alle feste. L’isola come orizzonte narrativo comune, non come reliquia.
Emblematica, in tal senso, è la sua dedizione alla Festa di San Nicolò, mostra storica mantenuta viva dall’azione di alcuni volontari. In quel contesto, il confronto non è spettacolo, mas parte di un processo interno, quasi rituale, dove il virtuosismo resta strumento di legame e di riconoscimento reciproco. Non si gareggia per il pubblico, ma per la materia.

C’è un punto, nella traiettoria di Alessandro Boscolo, in cui la continuità si fa attrito. Un momento in cui la trasmissione non è più solo apprendimento, ma elaborazione di un dolore. Il corpo del padre, negli anni, ha cominciato a cedere. E con esso, anche il suo lavoro si è fatto scuro, denso, come se la fatica si fosse sedimentata nella materia. I suoi manufatti — neri, opachi, manifestazioni di ombre profonde — sembrano oggi raccontare retrospettivamente un disagio non espresso, un’inquietudine che prende forma nella superficie del vetro.
Ma è proprio in questo passaggio — fragile, doloroso, ineludibile — che Alessandro compie un atto radicale: trasforma l’oscurità in linguaggio, la sofferenza in consapevolezza. Non occulta ciò che ha ereditato, non rimuove le ferite che lo hanno preceduto. Le attraversa. Le riconosce. E da quella materia torbida, da quel nero che forse non esiste davvero a Murano, fa emergere un’altra luce. Non una redenzione, ma una forma di trasfigurazione. Un gesto di comprensione che è anche riscrittura.
Il suo lavoro, oggi, è virtuoso. Ma non è mai virtuosismo fine a se stesso. Porta con sé l’inquietudine da cui è nato. È un fare che non consola, ma espone. Che non nasconde le fratture, ma le incorpora nella forma. Per questo ci riguarda. Perché non si limita a ripetere, né a decorare, né a stupire. Ma insiste, scava, mette in tensione.
Noi conosciamo la differenza tra arte e artigianato. Ma conosciamo anche le mille forme in cui si può abitare l’arte, e le molteplici traiettorie con cui un gesto tecnico si apre a un pensiero. Per orientarci, abbiamo una semplice equazione: un’opera vive nel mondo dell’arte quando il suo fare si inscrive nella triangolazione tra oggetto, concetto e processo.
È per questo che, al di là della maestria tecnica e dei contesti in cui può essere collocato, al di là della tradizione o del materiale che plasma, affermiamo con decisione che il lavoro di Alessandro Boscolo è opera, è d’arte. Perché pensa. Perché trasforma. Perché è relazione con la comunità. Perché dice il dolore senza esibirlo. E perché, nel farlo, ci restituisce una bellezza inquieta, irriducibile, necessaria.














