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Centrosenzacentro. Lo Zen e le periferie di Marc Augé

Prospettiva dello Zen. Le fotografie sono di Emanuele Lo Cascio Prospettiva dello Zen. Le fotografie sono di Emanuele Lo Cascio
Prospettiva dello Zen. Le fotografie sono di Emanuele Lo Cascio
Prospettiva dello Zen. Le fotografie sono di Emanuele Lo Cascio
Presentato a Palermo il libro nato da un’intervista inedita di Paola Nicita ad Augé e le fotografie di Emanuele Lo Cascio

La Periferia, quale confine tra noi e gli altri, è nata con le città moderne. Negli anni, direi a questo punto nei secoli, è stata in ordine: sfondo letterario, sfida urbanistica, campo di studio socio antropologico, set cinematografico e strategia elettorale. Cominciando dal termine Suburbano, di cui “periferia” è etimo tardo latino, non ci è difficile capire che indichi ciò che è più marginale, nonché sottoposto alla più centrale urbanità. Da qui, si arriva all’accezione più recente di luogo di alterità in cui il degrado crea degenerazione, cioè distanza dal genere che è, appunto, quello del cittadino.

La nozione urbanistica di periferia parte da un’ottica geografica impostasi sin dal XIX Secolo, un punto di vista che ci spinge da un lato a considerare un moto di espansione e, dall’altro, un rapporto di dipendenza. La periferia è di solito generata dunque da un allargamento della città da un suo nucleo originario, da cui prende il nome, ma è, al tempo stesso, una sua succursale, cioè un luogo ad esso legata da dipendenza identitaria ed economica, una dipendenza destinata però a sfrangiarsi e a squalificare ogni carattere distintivo in un surrogato, sub – urbano, appunto.

Tutto ciò è ammissibile e facilmente verificabile solo se si considera la periferia dal punto di vista dell’urbanista; se, invece, si comincia a guardare la periferia come una realtà a sé stante, con le sue specifiche caratteristiche impresse, non tanto dalle aspettative progettuali, quanto da quelle maturate nel tempo tra i riti di una comunità altra, allora apparirà davanti a noi quella periferia cara ai sociologi e agli antropologi. La periferia, infatti, ha una sua ritualità, oscillante tra il fiabesco e l’orrifico, dove la sincera solidarietà convive con la ferocia criminale.

 

La copertina del libro di Paola Nicita
La copertina del libro di Paola Nicita
Periferia postmoderna

Lo Zen, Zona Espansione Nord di Palermo, raccontata da Paola Nicita e fotografata dall’artista italo americano Emanuele Lo Cascio, è una tipica periferia postmoderna almeno quanto lo possono essere Zingonia, le Vele di Scampia o il “Serpentone” del Corviale, solo per fare esempi noti. Esperimenti urbanistici figli della radiosità modernista e eretti secondo una logica brutalista, del tutto incuranti della prospettiva abitativa, esperimenti attenti, però, alla pianificazione, una realtà destinata ad essere mitizzata per via del suo fallimento. Eppure, in questo libro non c’è il mito della zona borderline, della banlieue, non c’è il soggetto di studio reiterato dalla compulsiva, maniacale fissazione di sociologi e antropologi attenti a conservare il proprio osservatorio sociale e umano.

La periferia, lo Zen in questo caso, non è affatto il luogo di produzione dell’immaginario, può essere al massimo un capro espiatorio: “Ha sparato perché viene dallo Zen”, ma non un mito, una discarica più che un accampamento tribale. Ce lo dice questo libro edito da Mimesis, dal titolo che sembra uno scioglilingua Centrosenzacentro. Un saggio che parte da un’intervista rilasciata nel 2008 dal noto sociologo Marc Augè a Paola Nicita.

Il dialogo tra Paola Nicita e Augè sorregge, come il fusto d’un albero, la chioma dei ragionamenti dell’autrice che si dirama nei cieli dell’architettura, della storia sociale e urbanistica di un quartiere che, di per sé, è un’altra Palermo. Arcipelago di isole nell’isola in un’isola, la Sicilia, lo Zen non si nota per una architettura vistosa, i veri protagonisti sono, infatti, i suoi abitanti. Come naufraghi approdati lì dopo esser giunti da una terra madre, la città di Palermo appunto, luogo martoriato dall’indigenza del terremoto nel 1968.

 

Fotografia di Emanuele Lo Cascio
Fotografia di Emanuele Lo Cascio
Utopia abitativa

Dopo una sorta di migrazione, uno sradicamento volontario forzato dalle promesse di vivibilità i palermitani cominciano a popolare lo Zen. Questa è una città elettorale, faziosamente concepita da un’utopia abitativa e realizzata con quello che Anselm Jappe ha definito laconicamente “arma di costruzione di massa”, il cemento. Un quartiere nato sotto i migliori auspici, è narrato da Nicita sin dalla sua gestazione nel ventre violentato della Palermo del “Sacco” un luogo partorito dalla perniciosa pianificazione di una nuova centralità. Una centralità formulata per distanziare, circoscrivendola, una comunità non più degnamente urbana, ma nemmeno fieramente provinciale.

Lo Zen è questo, e lo vediamo bene nelle foto di Lo Cascio. Ha un profilo anonimo, dove gli scorci prospettici s’insabbiano nel suolo incolto e l’unità ideale si spezzetta in una miriade di isolamenti, di isolitudini esistenziali, per utilizzare un termine caro a Massimo Onofri. È una città relitto, in cui una barca scassata condivide il suo stato inerte con le case che la circondano. È questa immagine di Lo Cascio che forse più rappresenta storia e natura del luogo, perché quell’elemento allotrio, oltre ad essere memoria di un naufragio, sovrintesa, nella sua quiescenza, da un contesto altro. Così è lo Zen, incongruo, vitale quartiere, rigido Castrum abitato da una caotica e pulsante comunità animata da bambini, sorvegliata da madri, ferita dai giovani.

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