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La Fenice brucia ancora

Beatrice Venezi
Teatro La Fenice opera house as of 2015, in Venice, Italy. Burnt twice, the last time in 1996, the opera house was rebuilt in 2003 and reopened in 2004.
La nomina di Beatrice Venezi a “direttrice musicale” del Teatro La Fenice di Venezia apre un conflitto tra metodo, politica e legittimità culturale

Mio nonno l’avrebbe saputo fare meglio. Non la bacchetta — la nomina. Avrebbe guardato il palcoscenico come si guarda un campo prima del raccolto: si controlla la direzione del vento, si parla con chi lo attraversa ogni giorno, si ascolta il rumore delle mani che accordano gli strumenti. Poi si decide. Invece qui, alla Fenice, la decisione è arrivata dall’alto e l’ha spaccato in due: un teatro che conosce il fuoco dovrebbe saper misurare le scintille.

Beatrice Venezi

La scelta di Beatrice Venezi come direttore musicale (sì, preferisce così a direttrice) non è che l’ultimo atto di una storia che non parla solo di musica. Parla di governance, di legittimazione e di quel patto fragile che tiene insieme un’istituzione: lavoratori, pubblico, città. L’orchestra e le maestranze hanno detto “no” non tanto a una persona, quanto a un metodo: la percezione di un atto di vertice, di un curriculum letto come inadeguato per un teatro con una storia come quella della Fenice. Qui la cronaca smette di essere contingenza e diventa questione di processo: chi decide? con quali criteri? su quale orizzonte artistico? Senza queste risposte, il conflitto non è un incidente: è la forma stessa della decisione.
E qui entriamo nel merito politico: la nomina è stata formalmente deliberata dalla Fondazione presieduta dal sindaco Luigi Brugnaro, su proposta di Nicola Colabianchi. Non si tratta di un dettaglio neutro. Quando il primo cittadino esercita un ruolo così diretto nella governance culturale, le scelte assumono una densità pubblica che travalica i confini amministrativi. Non è un crimine avere una visione; è un obbligo, però, che quella visione si misuri con trasparenza. Ed è legittimo — più che mai — che l’orchestra chieda non una legittimazione simbolica, ma un confronto sostanziale.

Teatro La Fenice opera house as of 2015, in Venice, Italy. Burnt twice, the last time in 1996, the opera house was rebuilt in 2003 and reopened in 2004. Photo by Benh LIEU SONG

Il governo e il ministero non hanno firmato la delibera, ma non stanno a guardare: l’endorsement istituzionale e la storia di rapporti tra la nomina e posizionamenti politici nazionali trasformano una scelta locale in un segnale politico nazionale. Se il teatro diventa strumento di legittimazione politica, la cultura perde la sua funzione mediatrice e diventa cifra di potere. Questo è il punto: non si contesta una persona per le sue opinioni, si contesta un uso pubblico delle istituzioni che tende a sostituire il merito con il consenso (per buona pace di quel ministero dell’istruzione e del merito da poco ribattezzato così).
Andrea [Penzo, ndr], porta qui un ricordo. Suo nonno, Augusto Veronese, era un tenore di casa. Figlio di un altro secolo, la voce temprata tra prove, turni e una stanchezza che oggi chiameremmo “dignità”. Da bambino Andrea veniva trascinato — letteralmente — alla lirica. Resisteva: la noia, i velluti, le pause. Allora il nonno passava alla pedagogia delle piccole cose: “Ascolta il clarinetto in quel punto”, “guarda come il maestro respira con l’orchestra”, “senti come il coro entra senza farsi vedere”. Non voleva che amasse l’opera come repertorio: voleva che capisse il lavoro. Che la musica è un’ecologia di gesti: non vale l’io, vale il noi. Forse è per questo che, di fronte alla nomina, oggi sentiamo più forte la voce di chi suona che quella dei comunicati. Ci torna in mente quel “This is propaganda” di Tino Sehgal, quella guardasala che camminando indifferente per il piano terra dell’Hambuerger Banhof modulava perfettamente la voce impostata dalla lirica come una presenza casuale in un luogo significativo: la forza della sostanza talmente densa da non aver bisogno di alcun tipo di imbellettamento o di palcoscenico. Qui ci sembra che la sostanza voglia essere sostituita dalla forza simbolica della comunicazione.

Augusto Veronese, foto storiche d’archivio, famiglia Penzo-Veronese

Sempre dal cappello della nostra memoria: una sera al Malibran, una sostituzione all’ultimo che salvò la recita e, dicono, “il teatro”: un gesto antico, di quelli che non finiscono nei curricula ma restano negli sguardi condivisi delle maestranze. E poi l’incendio: 29 gennaio 1996. Augusto soffrì in silenzio, come fosse andata a fuoco una stanza di casa. Il dolore non era per le pietre, ma per l’opera viva che quelle pietre custodivano: partiture nelle cartelline, righe a matita sui margini, prove finite tardi, voci tirate su di corsa la mattina dopo. È un paradosso crudele: oggi diciamo che la Fenice “brucia ancora” non perché sia in fiamme, ma perché scalda e ferisce la città ogni volta che il teatro dimentica che è comune — non nel senso giuridico, ma nel senso sensibile del termine.
Oscilliamo volutamente tra il poetico e l’analitico, perché il caso lo richiede. Dal lato poetico: un teatro è un respiro collettivo. Dal lato analitico: un teatro è un nodo di accountability. Le fondazioni lirico-sinfoniche si reggono su tre gambe: indirizzo politico, management, corpi artistici. Quando una gamba decide per tutte, le altre due tremano. Non entriamo nel dibattito tendenzioso e paradossale che vuole sottolineare il nuovo perché la Venezi è donna e giovane e non appartiene all’entourage di sinistra, cosa che a quanto pare infastidirebbe i più. Qui la questione è proprio l’opposto: non ci sono quote rose, non ci sono appartenenze politiche che dovrebbero dettare la scelta della persona più opportuna alla guida di un’istituzione culturale, che ha l’obbligo di dare una visione di indiscussa qualità. Basta anche con il credere che il bene supremo dell’arte sia metterlo al livello dei più, renderla fruibile e accessibile attraverso programmi televisivi, talk show e altre semplificazioni: se un teatro è frequentato e prenotato ogni anno da migliaia di persone che lo considerano un tempio della musica classica non c’è bisogno di corromperlo, non c’è bisogno di abbassarne il livello, sono altre le istituzioni che dovrebbero preoccuparsi di fare da ponte, non certo La Fenice (che per altro da moltissimi anni investe su programmi educational particolarmente efficaci e diffusi nelle scuole della regione). Qui quelli che tremano sono i criteri: esperienza operistica, rapporto pregresso con l’orchestra, capacità di visione condivisa. Tremano i processi: tempi, consultazioni, comunicazione. E trema l’audience trust — quel credito emotivo ed economico che si chiama “abbonamento”. Non sono i titoli sui giornali a fare disdette: è la percezione che non ci sia una direzione — in senso musicale e in senso istituzionale.
Il dibattito sul “direttore/direttrice” è un sintomo linguistico della stessa cosa: non la parola in sé, ma il campo semantico che attiva. Inclusione, storia delle professioni, simboli. Si può discutere, anche animatamente, ma non si può usare il linguaggio come sostituto dei criteri. Un teatro non si governa con le parole d’ordine: si governa con prove aperte, calendario, scelte di repertorio, qualità dei cast, commissioni ai viventi, misurazione pubblica dei risultati.

Foto 4: Augusto Veronese con Beniamino Gigli al Teatro La Fenice, foto storica d’archivio, famiglia Penzo-Veronese

“Ma allora, contro o a favore?” — la domanda che chiude sempre ogni intervista pigra. Né l’uno né l’altro. A favore del metodo, contro la scorciatoia. A favore della trasparenza dei processi, contro l’estetica dell’annuncio. Soprattutto, a favore dell’orchestra, del coro, dei tecnici, delle maschere, dei lavoratori invisibili; a favore del pubblico che tiene in piedi la baracca persino quando tutto traballa.
Quando la Fenice andò a fuoco, il nonno di Andrea non fece un discorso: tirò fuori un libretto consumato e disse solo “qui c’è tutto”. Oggi, nel rumore che ci circonda, ci chiediamo se lo spartito ce l’abbiamo ancora davanti o se lo stiamo ricostruendo a orecchio. La nomina di un direttore musicale può essere una splendida occasione per ricomporre: un tavolo vero con l’orchestra, criteri espliciti, impegni verificabili, un piano-ponte che renda comprensibile al pubblico dove andiamo e perché. Oppure può diventare l’ennesimo incendio simbolico: fiamme alte, applausi per un istante, cenere il giorno dopo.
La musica non salva tutto, ma salva qualcosa di essenziale: il modo in cui stiamo insieme mentre accade. E un teatro che si chiama Fenice non può accontentarsi di rinascere: deve imparare a non bruciare da solo.

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