
Nato nel 1934 nel rione Sanità, Jodice abbracciò la fotografia non come semplice mezzo documentario, ma come strumento espressivo e poetico
“La fotografia non è solo quello che vedo, ma quello che scelgo di non mostrare”. Con queste parole, raccolte in una lunga conversazione con la stampa, Mimmo Jodice sntetizzava il senso profondo del suo sguardo: non la mera registrazione del reale, ma l’invenzione di spazi immaginati, sospesi tra memoria, silenzio e tempo. Purtroppo le ricordiamo oggi, perché Mimmo Jodice è venuto a mancare, all’età di 91 anni.
Nato a Napoli il 24 marzo 1934, nel rione Sanità, Jodice si trovò presto a confrontarsi con difficoltà familiari: la morte del padre nel 1939 lo costrinse ancora ragazzo a entrare nel mondo del lavoro. Dopo iniziali esperienze nel disegno e nella pittura, intorno agli anni ’50-’60 abbracciò la fotografia. Non come semplice mezzo documentario, ma come strumento espressivo e poetico.
Nei decenni successivi sviluppò una ricerca personale che esplorava il Mediterraneo, le tracce archeologiche, le città abbandonate, la dimensione del vuoto e dell’attesa. Con un bianco e nero deciso, a volte drastico, trasformava il reale in un mondo parallelo carico di suggestioni.

Camera oscura
Dal 1970 insegnò fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, contribuendo alla formazione di generazioni di fotografi meridionali e non solo. Nel corso della sua carriera ricevette numerosi riconoscimenti, fra cui il Premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia Nazionale dei Lincei nel 2003. Jodice non si limitava a documentare Napoli, la sua città di origine: la reinventava. Nei suoi scatti Napoli diventa “uno spazio dell’anima”, dove le statue, le colonne, i monumenti antichi si mescolano ai vicoli e ai silenzi urbani.
Anche l’uso rigoroso del bianco e nero e della camera oscura – spesso preferendo la stampa manuale al digitale – testimonia un approccio artigianale alla fotografia, in cui ogni immagine è il frutto di una meditazione e di una lentezza che oggi appare preziosa. Sul piano internazionale, Jodice fu riconosciuto come uno dei principali esponenti della fotografia italiana contemporanea, con esposizioni in musei di New York, Parigi, Torino e altrove.

Il vuoto che parla
Una parola ricorre spesso quando si parla di Jodice: attesa. Attesa come tema (come nella mostra Attesa.1960‑2016 tenuta al museo MADRE di Napoli), attesa come forma, frame che si trattiene, silenzio fotografico. In molte immagini la figura umana scompare, restano spazi, colonne, vuoti urbani, statue antiche e il profilo di un tempo sospeso. Jodice ci ha insegnato che ciò che non si vede può essere più potente di ciò che è in primo piano.
Con la sua scomparsa, il panorama dell’arte e della cultura italiana perde non solo un maestro, ma un interprete dell’invisibile. È un lutto per Napoli, per la fotografia, per chi cercava nella luce e nell’ombra una via per dire il tempo che passa e il tempo che resta. Ma resta un archivio immenso, opere e immagini capaci di parlare ancora, di farci rallentare lo sguardo, di farci abitare un momento di meditazione.














