
Per la Biennale Foto/Industria 2025 la Fondazione Mast presenta 11 mostre di autori provenienti da diverse parti del mondo
“Lavorare sul confine significa infatti
lavorare privi di certezze e osservare
situazioni non codificate, incerte,
aperte, non comprese o male intese.”
Guido Guidi
Nel lessico inglese esiste un senso metaforico che separa le parole House e Home che sfugge alla lingua italiana. Si tratta di un concetto emotivo, una visione antropologica ed esistenziale dell’idea di casa che diventa vera urgenza affettiva in questo preciso momento storico. Home è oggi più che mai una linea di confine precaria che corre il rischio di smarrirsi nei suoi significati metaforici e persino di crollare. Home è lo spazio intimo che da sempre e per diverse ragioni, la fotografia ha reso oggetto del proprio sguardo, sia attraverso lo studio della luce e della poetica delle cose materiali, sia come osservatorio privilegiato di porzioni di spazio esterno attraverso la cornice di una finestra, o di momenti di intimità familiare.
Non è dunque scontato che la fotografia contemporanea abbia voluto dedicare a questa tematica uno sguardo speciale e lungimirante e che la VII Biennale di Fotografia dell’industria e del lavoro promossa dal MAST di Bologna abbia per titolo HOME. Il concetto di casa come spazio domestico in relazione ai processi di produzione e di trasformazione, in relazione all’urbanistica e alle vicende storiche che determinano la produttività, l’economia, le crisi globali è quanto mai attuale e così antropologicamente determinante. Per questa ragione il titolo HOME scelto dalla Biennale di Fotografia esplora questa complessità “nel momento in cui la casa costituisce una delle più grandi sfide del nostro tempo” e lo fa attraverso 11 mostre di autori provenienti da diverse parti del mondo, dislocate in vari luoghi della città ma che si collegano tutte idealmente con la mostra allestita negli spazi del MAST dedicata al fotografo canadese Jeff Wall.
Le sue grandi immagini fotografiche per la maggiore in lightbox, sono quanto di più propenso a interrogativi di senso, nella propria freddezza compositiva. Sono infatti lavori concettuali pensati dall’artista e costruiti come tableaux vivant piuttosto che come testimonianza emotiva. L’azione è messa in scena come su un set cinematografico, e nulla lascia al caso e alla spontaneità. Il suo realismo non è rivelatore ma offre piuttosto possibilità di costruire una narrazione. Wall sembra cercare anche lui una possibilità di interpretazione delle sue immagini, pone il dubbio davanti a una certezza. Non racconta una storia ma un punto di una narrazione chiedendo al pubblico di crearne una, di svolgere una trama che possa essere un inizio o una fine di quanto da lui rappresentato.
Persino i titoli delle fotografie si prestano a un’idea di narrazione, sarebbero perfetti infatti, per intitolare un racconto o un libro. La perfezione formale e le grandi dimensioni delle foto rendono la percezione vertiginosa, confusa ed estraniante, corrono a rimandi e dèjà vù, a un’azione progressiva e misteriosa da divenire. L’eccesso di realismo, amplificato dalla luce retrostante del light box, resta un interrogativo costante, generato dalla finzione dell’immagine costruita sul set. La fotografia può essere infatti il frutto di una costruzione scenografica studiata e realizzata con cura dei particolari. “[…] se da un lato la realtà fotografica è comunque un’illusione […], dall’altro si può dire che ogni illusione premeditata ad arte dal fotografo riceve, dalla fotografia, un attestato di verità. Di fronte all’immagine fotografica più improbabile e inattendibile noi ci ritroviamo come nella condizione del “sogno o son desto” tipico del dormiveglia notturno, o dell’evento stupefacente e miracoloso: lo accettiamo come frutto di una realtà superiore.” (Francesca Alinovi)
Del resto nulla è più reale della finzione nella società dello spettacolo in senso lato che costruisce l’immagine e nulla lascia al caso. Al centro del suo universo immaginifico Jeff Wall pone l’uomo, nel suo costruire, vivere e abitare i luoghi dentro quella linea di confine che stabilisce un dentro e un fuori dello spazio domestico, del mondo e di se stessi. La mostra del MAST Living, Working, Surviving è curata da Urs Stahel e presenta ventotto fotografie realizzate da Jeff Wall tra gli anni ’80 e il 2021(Mostra a cura di Urs Stahel fino all’8 marzo 2026).

Il valore simbolico della parola inglese Home è il leitmotiv della mostra Some Homes della fotografa tedesca Ursula Schulz-Dornburg allestita nella grande sala della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Ad “accompagnare” le immagini fotografiche nel percorso della mostra sono state allestite una serie di sedie antiche tra cui esemplari di vecchie Thonet che oltre ad essere funzionali alla contemplazione delle immagini, sono un evidente simbolo di accoglienza e di vita domestica. Fanno da pendant alle fotografie di abitazioni che scorrono lungo le pareti rigorosamente in bianco nero, case costruite in un contesto di natura a cui ben si collega l’idea delle sedie in legno artigianali e intrecciate a mano come le Thonet. Nelle sei serie fotografiche in mostra passano in rassegna diverse tipologie di abitazioni “costruite con materiali naturali destinate a dissolversi in pochi anni così come strutture pensate per resistere nei secoli”, progetti di architetture diverse che rispecchiano le tradizioni della propria area geografica. Le abitazioni sono delle piccole geografie del mondo e disegnano una cartografia dell’abitare nel tempo e nello spazio.
La mostra di Sisto Sisti Microcosmo Sinigo alla Fondazione del Monte offre un altro angolo di veduta di cio’ che puo’ essere considerato Home cioè la fabbrica, intesa come spazio dell’abitare attraverso il lavoro. Un borgo operaio concepito come spazio esistenziale collettivo, un microcosmo dove gli operai condividevano non solo il lavoro ma anche momenti di convivialità negli spazi comuni: “orti condivisi, bar, cinema, spaccio, scuola, ambulatorio medico”. La mostra racconta la vita nel borgo e nello stabilimento chimico Montecatini di Sinigo, in Alto Adige, dove Sisti lavorava come operaio. Fotografo autodidatta di origini emiliane, Sisti fotografò la vita del borgo e della fabbrica tra il 1935 e il 1950 mettendo in evidenza un’atmosfera di amichevoli correlazioni e di empatia con i luoghi, lasciando una testimonianza personale e non ideologica, distante dal processo di “italianizzazione”, da parte del regime fascista, di un territorio di maggioranza culturale tedesca (Mostra a cura di Alessandro Campanar e Stefano Riba).
La mostra di Moira Ricci, unica artista italiana presente a Foto/Industria, è allestita presso la sala delle Ciminiere del museo MAMbo di Bologna. Quarta casa tocca più intimamente i temi legati al sociale e alla famiglia, ai luoghi come appartenenza, dove fa da sfondo la cultura strettamente popolare e l’influenza che questa determina sulle componenti sociali. Sono un esempio le foto di famiglia ritagliate e inserite a collage in scatole che ricreano tridimensionalmente un ambiente familiare. Le sagome delle figure ritagliate dalle foto di famiglia, collocate all’ interno di queste scatole, assumono una valenza poetica, quasi magica oltre a prendere nuova vita, come se volessero ancora raccontarsi. Particolarmente suggestive le storie delle ultime sale, un racconto che la tradizione popolare ha reso fragili tra mito e vergogna sociale, custodito e amato nell’intimità familiare e brutalmente esposto allo sguardo degli altri (Mostra a cura di Lorenzo Balbi e Francesco Zanot).

La Fondazione Collegio Venturoli ospita la trilogia fotografica di Julia Gaisbacher, Vuyo Mabheka e Mikael Olsson. Lo spazio Venturoli riapre le sue porte in quello che fu un tempo un collegio per studenti mantenendo oggi ancora viva questa tradizione come luogo di residenza per artisti. La sua lunga storia è in parte ancora testimoniata da alcuni ambienti come le stanze del piano superiore che ospitano gli arredi originali di una vecchia biblioteca arredata, visibile al pubblico solo parzialmente. All’ interno della sua articolata architettura sono allestite tre mostre molto diverse tra loro. My Dreamhouse is not a House dell’artista austriaca J. Gaisbacher è un progetto fotografico dedicato a uno dei primi esperimenti di edilizia sociale partecipata in Austria, il complesso residenziale Gerlitzgrunde di Graz, costruito negli anni Settanta. La visione illuminata dell’architetto Eilfried Huth prevedeva che i futuri residenti del nuovo complesso affiancassero le varie fasi di progettazione in un rapporto di reciproco ascolto con le maestranze, trasformando così un cantiere edile in comunità partecipata. La serie di immagini fotografiche si arricchisce inoltre di un video documentario e di alcune immagini d’epoca.
Vuyo Mabheka è un giovane fotografo sudafricano che in Collegio Venturoli presenta la serie Popihuise. Il tema della Home è qui sviluppato in una declinazione autobiografica di ricerca ed espiazione assemblando ritagli di fotografie e disegni a matita per ricostruire la memoria dell’infanzia e quello che è stato perduto. Attraverso uno stile naif l’artista costruisce collage di carta colorata unendo ritagli di fotografie (sono poche le fotografie di famiglia sopravvissute ai traslochi) su scenografie disegnate a matita.
Infine Mikael Olsson chiude la trilogia di Collegio Venturoli con la mostra Sodrakull Frosakull dedicata all’architetto e designer modernista Bruno Mathsson. L’artista svedese prende in esame le due case costruite negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, reinterpretando la parole Home, non più intesa ora come confine ma piuttosto come apertura tra spazio domestico e paesaggio. La poetica decadente delle sue fotografie cerca di interpretare i luoghi, di raccontarli, non solo nella bellezza delle architetture ma anche nella loro fragile esistenza al tempo della memoria e all’ inesorabile trascorrere delle stagioni.
Alejandro Cartagena presenta a Palazzo Vizzani A Small Guide to Homeownership, una indagine fotografica sul fenomeno della sub urbanizzazione della città messicana di Monterrey mettendo in evidenza non solo le architetture ma le criticità che tale espansione urbana ha determinato, come la precarietà del sistema dei trasporti. La mostra pone una riflessione sul concetto intimo della parola Home rispetto al mercato immobiliare e alla speculazione edilizia che non tiene conto delle reali esigenze delle persone. Cartagena mette in luce la debolezza di un sistema economico che cerca di imporre modelli di sviluppo globalizzati senza studiare la reale fattibilità in contesti locali.
In Looking for Palestine nel Sottospazio di Palazzo Bentivoglio Lab la parola Home assume un contenuto fortemente politico, diventa uno spazio da costruire e da inventare ogni giorno, un nomadismo improvvisato di poche cose e piccoli oggetti recuperati tra le macerie della sopravvivenza. L’esilio forzato e la perdita della casa per gli abitanti della striscia di Gaza è ancora storia recente di cui la memoria porta ombra. La mostra è stata realizzata da Forensic Architecture, un centro di ricerca dell’Università di Londra che indaga sulle violazioni dei diritti umani da parte di Stati, forze militari, e aziende (Mostra a cura di Elisabeth Breiner, con Shourideh Molavi).
Kelly O’Brien in Spazio Carbonesi mette in discussione il concetto di Home come rifugio ripercorrendo la storia della sua famiglia e del lavoro femminile. In No Rest for the Wicked l’artista di Derby, Regno Unito, ha documentato per vent’anni la vita della nonna e della madre tra le mura della propria casa popolare, tra lavoro domestico e disparità di genere. La parola Home diventa un pretesto per rappresentare visivamente “questioni di classe, di genere e di identità” (Mostra a cura di Raquel Villar Pèrez).
A chiusura del percorso espositivo tra i luoghi scelti da Foto/Industria, Palazzo Bentivoglio ospita infine il progetto Prut dell’artista rumeno Matei Bejenaru dedicato ai villaggi che sorgono sulle rive del fiume Prut che separa geograficamente la Romania dalla Moldavia. Il fiume, come la parola Home, rappresenta un confine di protezione e di identità, all’interno del quale le comunità rurali sopravvivono con i propri rituali quotidiani alle trasformazioni del progresso; il fiume, come una Home, ha una sua storia anche di sopravvivenza dalla frenesia urbana che la fotografia documenta e protegge tra paesaggio naturale e interni domestici.










